Palazzo Chigi smentisce le rivelazioni del New York Times secondo cui il governo italiano avrebbe ricevuto dall'amministrazione Obama "prove esplosive" sul caso Regeni. Non solo. Con la procura di Roma la collaborazione è stata sempre piena. Un ridimensionamento delle notizie pubblicate dal NYT che non spengono, nemmeno un po', le tensioni di queste ore intorno alla decisione del governo italiano di rimandare al Cairo un nostro ambasciatore.
Decisione giustificata da Palazzo Chigi con la necessità di 'normalizzare' i rapporti con l'Egitto dopo un anno e mezzo di ferri corti dovuti all'omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni (febbraio 2016) ancora oggi coperto da un muro di omertà e reticenze da parte del governo di al-Sisi. "Vogliamo tutta la verità sulle responsabilità di apparati dello Stato egiziano nella morte di Giulio", hanno sempre detto ministri e premier italiani in questi mesi. I silenzi ricevuti avevano portato al ritiro dell'ambasciatore dal Cairo. Due giorni fa la notizia del reinvio di un nostro diplomatico (leggi anche l'articolo del Sole 24 ore) a fronte di nessuna sostanziale novità sul fronte delle indagini (anche se la procura di Roma che indaga sul caso ha parlato di "passi avanti" sul fronte della collaborazione con le autorità egiziane). Poi, ieri, la bomba sganciata dal quotidiano americano, che ha prodotto migliaia di commenti sulla rete, tra i quali, naturalmente, quello sgomento della famiglia di Giulio (leggi su questo l'articolo dell'HuffPost).
Cosa ha scritto il New York Times
L'Amministrazione Obama era in possesso di "prove esplosive" sulle responsabilità di alcuni "alti papaveri" egiziani nella morte di Giulio Regeni, e questo portò ad un più che burrascoso colloquio tra l'allora segretario di Stato John Kerry e l'omologo egiziano Sameh Shoukry. Lo scrive il New York Times in un lungo articolo dedicato al caso del giovane ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016 in circostanze ancora tutte da chiarire.
Prove esplosive
"Nelle settimane successive alla morte di Regeni", scrive il quotidiano in un reportage dal Cairo intitolato "Gli strani garbugli nel caso della scomparsa al Cairo di Giulio Regeni", "gli Stati Uniti vennero in possesso dall'Egitto di prove di intelligence esplosive, prove che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana". Fonti dell'allora Amministrazione Obama citate dal giornale affermano che "si era in possesso di prove incontrovertibili delle responsabilità egiziane". A questo punto, come scrive il Messaggero, il materiale venne girato "al governo Renzi su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca". Ma "per evitare di svelare l'identità della fonte non furono passate le prove così come erano, né fu detto quale degli apparati di sicurezza egiziani si riteneva fosse dietro l'omicidio".
La leadership egiziana sapeva
Altre fonti sempre citate dal New York Times affermano: "Non è chiaro chi avesse dato l'ordine di rapire e, presumibilmente, quello di uccidere" Regeni, ma, come scrive La Stampa, "quello che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, è che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze dell'uccisione" del ricercatore. Di più: "Non abbiamo dubbi di sorta sul fatto che questo fosse conosciuto anche dai massimi livelli". Insomma, non sapevamo se fosse loro la responsabilità, ma sapevano, sapevano".
Incontro burrascoso Kerry-Shoukry
Questo portò alcune settimane dopo "l'allora segretario di Stato, John Kerry, ad un aspro confronto con il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, nel corso di un incontro che si tenne a Washington". Si trattò, si legge su RaiNews.it, di una conversazione "quantomai burrascosa" anche se da parte della delegazione americana non si riuscì a capire se il ministro stesse erigendo un muro di gomma o semplicemente non conoscesse la verità", Un approccio brutale, quello di Kerry, "che provocò più di un'alzata di sopracciglio" all'interno della Amministrazione, dal momento che Kerry "aveva la fama di trattare l'Egitto con i guanti bianchi". Nel frattempo i sette magistrati italiani inviati al Cairo "venivano depistati ad ogni pie' sospinto" e lo stesso ambasciatore italiano Massari "presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate, ricorrendo ad una vecchia macchina che scriveva su carta sulla base di un codice criptato". Anche perché "si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane".
Le tensioni interne al governo
Il Corriere della Sera si sofferma anche su quella parte dell'’articolo del New York Times dove la ricostruzione si occupa apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con "altre priorità". "Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo'. Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, 'parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi' del caso Regeni. 'Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano', scrive il Times. 'Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni'. 'Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani', spiega una delle fonti al quotidiano".
Palazzo Chigi ridimensiona le rivelazioni del NYT
In merito alla inchiesta del New York Times, dedicata oggi alla morte di Giulio Regeni - scrive il Sole 24 Ore - "fonti di Palazzo Chigi sottolineano come nei contatti tra amministrazione USA e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all'omicidio di Regeni non furono mai trasmessi elementi di fatto, come ricorda tra l'altro lo stesso giornalista del New York Times, né tantomeno «prove esplosive» Si sottolinea,altresì, proseguono le stesse fonti, che la collaborazione con la Procura di Roma in tutto questi mesi è stata piena e completa".
I nodi che restano aperti
Una nota che non spegne le polemiche. E' ancora il Corriere a mettere in fila i punti scoperti portati alla luce dal quotidiano di New York:
- l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
- nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
- i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
- anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).