Il ministero della Difesa turco ha annunciato di aver terminato i preparativi per la sua offensiva nel nord della Siria contro le milizie curdo-siriane Pyg/Ypg e ha ha avvertito che Ankara "non tollererà mai la creazione di un corridoio del terrorismo lungo il confine". Obiettivo della Turchia è scongiurare la nascita di un'entità nazionale curda al confine.
"La creazione di una safe zone è necessaria per dare una vita sicura ai siriani e contribuisce alla pace e alla stabilità nella nostra regione", scrive il ministero in un tweet. Una fonte citata dal quotidiano Hurriyet, ha assicurato che "i preparativi sono stati completati nel minimo dettaglio" e "le Forze armate sono pronte a partire non appena riceveranno l'ordine dalle autorità politiche. Se è oggi sarà oggi, se è domani sarà domani, inizieremo non appena arriverà l'ordine", ha aggiunto la fonte.
I curdi valutano un'alleanza con Assad
Un quadro incandescente nel quale, per il momento, non è ancora entrato in campo quello che dovrebbe essere uno degli attori principali, il presidente siriano Bashar al-Assad, che di certo non guarda con entusiasmo alla prospettiva che, se chiamati a difendersi dagli attacchi turchi, i curdi abbandonino il controllo delle carceri dove sono rinchiusi diecimila "fighters" islamici, di fatto mettendoli in condizione di scappare.
A tirarlo in ballo sono le Forze Democratiche Siriane (Fds), l'alleanza di milizie curde, arabe e assiro-siriache costituitasi durante la guerra civile siriana e finanziata dall'Occidente per la lotta al sedicente Stato Islamico. Il loro comandante, Mazlum Abdi, citato dal portale Rojava Network Broadcasting, sta infatti valutando "una collaborazione con Assad, con l'obiettivo di combattere le forze turche". Va poi considerato che sul territorio siriano la Turchia può contare sull'appoggio della Free Syrian Army, la principale fazione ribelle non legata al jihadismo, che da Ankara ha ricevuto armamenti e formazione.
"Questa è una delle opzioni che abbiamo sul tavolo. Allo stesso tempo, invitiamo il popolo americano a fare pressione sul presidente Usa, Donald Trump perché ci aiuti", ha aggiunto Abdi. Inoltre, il comandante ha specificato che le truppe trasferite dall'alleanza lungo la striscia di confine tra Siria e Turchia, abbandonata dalle forze statunitensi, erano precedentemente assegnate a strutture di detenzione in cui sono detenuti i prigionieri dell'Isis. Abdi ha sottolineato che "la custodia dei prigionieri dell'Isis è secondaria" per le sue forze.
Quando nel gennaio 2018, con l'operazione 'Ramoscello d'ulivo', il presidente turco Recep Tayyp Erdogan tentò una prima sortita contro i curdi in territorio siriano, Assad condannò l'iniziativa come una violazione della propria integrità territoriale. Quel che è certo è che un'alleanza vera e propria con i curdi aprirebbe scenari geopolitici imprevedibili: collaborare con Assad significa anche, di fatto, collaborare con i russi, e ci sarebbero quindi inevitabili conseguenze sul rapporto non ostile con Erdogan che il capo del Cremlino, Vladimir Putin, è riuscito faticosamente a ricostruire negli ultimi anni.
L'annuncio di Trump e il passo indietro
Ieri Trump ha annunciato, per poi ritrattare in parte, il ritiro delle truppe statunitensi di stanza sul confine turco-siriano in vista di una operazione a lungo pianificata dalla Turchia nel nord-est del Paese, scatenando la protesta dei gruppi armati curdi vicini all'Occidente e lasciando ad Ankara la responsabilità dei prigionieri dell'Isis catturati nell'area e che i Paesi europei rifiutano di rimpatriare. Ieri, il Centro operativo e militare di coordinamento delle Forze Democratiche Siriane aveva denunciato "le prime conseguenze del ritiro degli Stati Uniti e del fallimento dell'Accordo sul meccanismo di sicurezza: le forze del regime siriano appoggiate dalla Russia si preparano a spostarsi militarmente verso la città di Manbij".
Il governo turco aveva annunciato ieri l'offensiva contro le milizie curde, che furono decisive nella sconfitta dell'Isis ma Ankara considera contigue al Pkk e quindi terroriste, dopo aver ricevuto il via libera della Casa Bianca, che aveva annunciato il ritiro dei propri soldati dall'area. Un annuncio che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva probabilmente fatto senza consultarsi con nessuno, giacché nel pomeriggio era arrivata una smentita del Pentagono.
La Difesa americana aveva affermato di non approvare l'iniziativa del presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, e comunicato che Washington avrebbe ritirato un "numero piccolo" di soldati (da 50 a 100 elementi delle forze speciali) a una "distanza molto piccola". "Di fatto - ha precisato un ufficiale americano - la nostra posizione nel nord-est siriano non cambia"..
Successivamente Trump aveva in parte corretto il tiro, anche per contenere una vera rivolta nel Partito Repubblicano contro quello che è visto come un vero e proprio "tradimento" di un alleato sul campo. "Se la Turchia oltrepasserà il limite, ne distruggerò l'economia", aveva twittato il presidente degli Stati Uniti, per poi chiarire di "non stare con nessuno".
Nondimeno, in serata la Turchia ha sferrato un raid aereo contro le Forze democratiche siriane (Sdf) nei pressi di al-Malikiyah, nel governatorato di al-Hasakah, nell'estremo nord-est della Siria, vicino al confine con l'Iraq. Lo ha riferito la televisione libanese Al-Mayadeen, precisando che sono stati distrutti due ponti e colpita una base delle Sdf. Colpi d'artiglieria sono stati sparati anche contro il valico di Semalka.
Erdogan vuole ricollocare i profughi
"Siamo pronti a entrare in Siria in qualsiasi momento", aveva annunciato Erdogan, che oltre a temere la nascita di uno Stato curdo controllato dai curdi siriani, ha un ambizioso piano da 27 miliardi di dollari per ricollocare due milioni di siriani nell'area liberata dalle milizie curde, che permetterebbe il rientro di molti dei 3,6 milioni di siriani fuggiti in Turchia a partire dal 2011.
Il piano di 'invasione', o di 'incursione', come viene anche definito, crea grande apprensione per le conseguenze che potrà avere a livello regionale. L'Onu ha ammesso che si sta "preparando al peggio", mentre l'Ue ha sollecitato una "vera transizione politica". Anche Lindsey Graham - uno dei senatori repubblicani più vicini a DTrump, tanto da essere considerato un riferimento politico del presidente - gli ha suggerito di rivedere la decisione del ritiro, che sarebbe foriera di "disastri".
Trump e i curdi
Nei confronti dei curdi, storici alleati nella lotta al Califfato, Trump ha mostrato poca simpatia. In un tweet ha scritto: "Hanno combattuto per noi ma è anche vero che sono stati pagati per fare questo". Il messaggio è rivolto soprattutto agli alleati, a cominciare da quelli europei: Washington vuole chiudere i cordoni della borsa. "Dovevamo restare in Siria solo trenta giorni e siamo lì da anni. Tenere in carcere migliaia di terroristi ci sta costando troppo, è un problema che devono risolvere adesso gli alleati".
Non è il primo strappo in Medio Oriente compiuto dalla Casa Bianca. Quando in inverno Trump aveva annunciato il ritiro americano dalla Siria, si era dimesso il segretario alla Difesa Jim Mattis, seguito subito dopo da Brett McGurk, inviato speciale nella lotta allo Stato Islamico. "Quando sono diventato president - il terrorismo islamico era in ascesa. Con me è stato debellato completamente". Ma è su questo punto che divergono repubblicani, democratici, parti dell'amministrazione e gli alleati. Il timore è che l'uscita americana potrebbe rendere vani anni di lotta al terrorismo nell'area.