Cosa farà ora Kim Jong-un dopo l’ultimo test nucleare, il più potente mai condotto da Pyongyang? Gli analisti della scena nord-coreana cercano, in queste ore, di intuire le prossime mosse del regime di Kim Jong-un. Sempre più imprevedibile e di difficile lettura, al punto da spingere qualche analista a credere che dietro le mosse di Kim ci sia una chiara strategia cinese in chiave anti-americana. Anche se con le sue recenti azioni di aperta sfida nei confronti di Pechino, quali aver compiuto per la terza volta gravi azioni provocatorie mentre il presidente cinese Xi Jinping - a Xiamen per il vertice Brics conclusosi ieri - è impegnato in un incontro internazionale, per alcuni sarebbe il segnale che la Cina ha perso il controllo sul suo storico alleato sempre più capriccioso Come spiega ad esempio il New York Times in un lungo articolo, la Corea del Nord è un ostacolo "inatteso e tenace" nel disegno cinese che punta a soppiantare l'America come potenza dominante in Asia. Nonostante le storiche relazioni tra Pechino e Pyongyang, e gli aiuti cruciali che tengono in vita il regime nordcoreano, Kim Jong-un sembra dimostrare poca gratitudine, indebolendo gli sforzi cinesi di erodere l'influenza di Washington nella regione e irritando Giappone e Corea del Sud. Nessuno sembra dunque in grado di prevedere le prossime mosse del leader nordcoreano. Solo pochi giorni prima del test di domenica scorsa, anche i rispettati analisti del sito web 38 North, non se la sentivano di avallare i sospetti di un possibile, imminente, test atomico da parte di Pyongyang. A contribuire all’incertezza, ci sono anche le indiscrezioni comparse sui media sud-coreani, in base alle quali il regime di Kim Jong-un starebbe spostando i missili balistici sulla costa occidentale del Paese: un segnale che un possibile nuovo lancio missilistico possa avvenire a breve.
“Penso che il Nord abbia raggiunto lo stadio in cui non ha più bisogno di fare test”, ha commentato un’analisi della scena nord-coreana, Koo Kab-woo, ai microfoni dell’agenzia France Press, citando come esempio il Pakistan, che ha condotto sei test atomici in totale. “Se guardiamo all’esempio del Pakistan, il Nord potrebbe essere agli stadi finali” per diventare una potenza nucleare. Quali saranno le prossime mosse del regime nord-coreano e quali sono le motivazioni che portano Kim Jong-un a proseguire nell’escalation della tensione in Asia orientale?
Dalla ricerca del rispetto internazionale alla giustificazione del regime
L’escalation della tensione nella penisola coreana non è un fatto nuovo, ma la situazione attuale è segnata da grandi passi in avanti nella tecnologia nucleare e missilistica sbandierati da Pyongyang. Ancora venti anni fa, nel 1997 - prima dei test atomici di Pyongyang (il primo è del 2006) - un ex colonnello dell’esercito nord-coreano che aveva disertato, Choi Ju-hwal, aveva avvertito il senato statunitense dei rischi connessi allo sviluppo di armi nucleari da parte del regime di Pyongyang. “Con queste armi, il Nord è in grado di evitare la mancanza di rispetto delle grandi potenze, come Stati Uniti, Russia, Cina e Giappone, e anche di avere la meglio nei negoziati e nei colloqui politici con queste superpotenze”.
Gli sforzi diplomatici hanno, però, finora fallito. E la diplomazia, come scrive in un’analisi dello scenario attuale della penisola coreana il magazine The Diplomat, “non è una soluzione probabile alle tensioni in Corea del Nord e rimangono scelte e domande difficili”. Tra queste: “Quanto è probabile che la Corea del Nord sviluppi appieno un arsenale nucleare? Possiamo accettare una Corea del Nord nucleare e quanto è importante? E se fosse assolutamente inaccettabile, questo pesa di più del costo e del rischio di una guerra?”. Se il principale motore che spinge le azioni di Kim fosse la giustificazione del regime all’interno, avverte il Diplomat, “non ci sarebbe niente che gli Stati Uniti potranno fare od offrire che possa portare a una risoluzione del conflitto”. Le due alternative rimaste sarebbero dunque il ricorso alla forza militare o l’accettazione della Corea del Nord come un Paese dotato dell’arma nucleare.
I contatti diplomatici non ufficiali. Le sorti del “canale di New York”
L’escalation negli ultimi mesi della tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord, sarebbe anche un segnale delle alterne fortune dei contatti diplomatici non ufficiali. A spiegarlo nei giorni di metà agosto scorso, quando il regime di Kim minacciava un attacco alla base navale statunitense di Guam, nell’Oceano Pacifico, era l’Associated Press. A condurre le trattative tra le due parti sono soprattutto due persone: l’inviato speciale di Washington per la questione nord-coreana, Joseph Yun, e un senior diplomat di Pyongyang alle Nazioni Unite, Pak Song-il. I due uomini assieme compongono il “canale di New York”: il canale di comunicazione diretto tra i due Paesi per evitare il conflitto.
Il canale di comunicazione funzionerebbe bene (forse addirittura meglio che durante gli ultimi mesi dell’amministrazione guidata da Barack Obama) ma il mese scorso sarebbe andato incontro a una battuta d’arresto: un incontro tra lo stesso Yun e un alto funzionario di Pyongyang, Choe Son Hui, vice direttore generale del dipartimento del Ministero degli Esteri di Pyongyang che si occupa degli Stati Uniti, scrive il Washington Post, sarebbe saltato perché la Corea del Nord non avrebbe mostrato progressi tangibili sulle condizioni dei cittadini statunitensi detenuti nelle carceri di Pyongyang. Nonostante l’esistenza di questo canale di comunicazione informale, alla base dei rapporti tra Usa e Corea del Nord, permane una “enorme carenza di fiducia” che impedirebbe un “dialogo costruttivo”, come ha spiegato il direttore della Commissione Nazionale Usa sulla Corea del Nord, Keith Luse, ai microfoni dell’agenzia americana.
L’approccio di Kim agli Usa
Altro fattore non secondario che contribuisce alla tensione è l’approccio mentale del leader nord-coreano. Se speculazioni sullo stato di salute mentale di Kim si susseguono da tempo, la paura di un assassinio si è manifestata ufficialmente a maggio scorso, quando l’agenzia di stampa ufficiale del regime, la Korean Central News Agency, ha lanciato la notizia di un complotto della Cia e dell’intelligence sud-coreana per uccidere il giovane leader con l’utilizzo di armi biochimiche.
Il complotto per assassinarlo avrebbe anche un nome: “Operation Plan 5015”. Il piano è emerso alla fine del 2015, e prevedrebbe, secondo il Brookings Institute citato da Fox News, “una guerra limitata con enfasi sugli attacchi preventivi a obiettivi strategici in Corea del Nord e “raid di decapitazione” per sterminare i leader nord-coreani”. Uno scenario hollywoodiano, dunque, che si avvantaggerebbe della collaborazione di una unità speciale sud-coreana creata ad hoc. Il piano sarebbe però difficilmente praticabile per gli esperti, soprattutto per la difficoltà di fare breccia nella cerchia ristretta dei funzionari più vicini a Kim. Non solo. Potrebbe comunque scatenare una reazione imprevista da parte del regime, senza la certezza che il sostituto al vertice del Paese possa essere meglio del leader attuale.
Nel frattempo il tasso di paranoia di Kim Jong-un, proprio negli ultimi giorni, sarebbe in decisa crescita. Secondo fonti che hanno parlato il mese scorso al quotidiano giapponese Asahi Shimbun, Kim avrebbe alzato ulteriormente il livello della propria sicurezza personale: la squadra di persone che si occupa della sua sicurezza si comporrebbe, oggi, anche di dieci ex agenti del Kgb.
La vera paura di Pyongyang: lo scenario libico e quello iracheno
A portare la Corea del Nord e il suo dittatore a perseguire lo sviluppo missilistico e nucleare, sarebbe soprattutto il timore del verificarsi di due scenari tra i più temuti: quello libico e quello iracheno. Di questa tesi, che circola da tempo tra gli esperti internazionali, è convinta anche la leadership cinese. Nel saggio “The Korean Issue: past, present and future - A Chinese perspective”, pubblicato sulle pagine online della Brookings Institution alla fine di aprile, Fu Ying, portavoce dell’Assemblea Nazionale del Popolo, spiega i timori di Pyongyang.
Fu cita un articolo comparso nel 2011 sul maggiore quotidiano nord-coreano, il Rodong Sinmun, in cui trova conferma la tesi secondo cui lo sviluppo delle armi nucleari viene messo da Pyongyang in diretta connessione con la sopravvivenza stessa del regime. La tesi è legata alle paure del regime di Pyongyang per la piega presa da alcuni eventi internazionali, e in particolare da uno: la caduta del regime di Muammar Gheddafi in Libia, che nel 2003 aveva rinunciato allo sviluppo delle armi di distruzione di massa. “Negli ultimi anni”, scriveva nell'aprile 2011 il maggiore quotidiano nord-coreano, prima della morte dello stesso Gheddafi, “le tragedie di alcuni Paesi che hanno rinunciato al programma nucleare a metà strada sotto pressione degli Stati Uniti hanno chiaramente confermato la ragionevole e corretta scelta che la Corea del Nord ha fatto. Solo così potrà essere salvaguardata l’autonomia etnica e nazionale”.
Un altro editoriale pubblicato dall’agenzia di stampa del regime di Kim Jong-Un, la Korean Central News Agency, subito dopo il quarto test nucleare del 6 gennaio 2016, spiegava ancora più chiaramente questo concetto e faceva riferimento a un altro leader del recente passato che oggi non c’è più: Saddam Hussein. “La storia prova che il potere deterrente del nucleare serve come fortissima spada per impedire l’aggressione esterna. Il regime di Saddam Hussein in Iraq e il regime di Muammar Gheddafi in Libia non potevano sfuggire al loro destino di distruzione dopo essere stati privati delle loro fondamenta per lo sviluppo nucleare e avere rinunciato per loro scelta ai propri programmi nucleari”. Con l’ultimo test nucleare del 3 settembre scorso, Kim Jong-un sembra promettere di non volere fare la stessa fine.