La Nigeria va al voto. Il 16 febbraio si terranno le presidenziali, con il capo di Stato uscente, Muhammadu Buhari, che si candida per il secondo mandato. Le elezioni, tuttavia, si terranno in clima di lacerazione del paese, dove la violenza del terrorismo, in particolare di Boko Haram, ha ripreso vigore. E proprio l’escalation terroristica degli ultimi mesi peserà sull’esito elettorale.
Vittoria rimandata, promesse disattese
Uno dei punti di forza del presidente uscente, nella campagna elettorale del 2015, è stata la promessa “solenne” di sconfiggere Boko Haram. Buhari ha spesso annunciato la vittoria sul gruppo terroristico ma, sempre, è stato smentito dai fatti. E anche in questi giorni, la recrudescenza degli attacchi di Boko Haram, e la sua rinnovata strategia di violenza, raccontato un’altra Nigeria, non certo quella narrata da Buhari.
Dopo tre tentativi falliti – 2003, 2007, 2011 – Buhari viene eletto sconfiggendo Goodluck Jonathan, presiedente uscente nel 2015, che aveva portato il paese sull’orlo del baratro e con un livello di corruzione mai visto prima. Le parole d’ordine erano queste: stabilità e miglioramento delle condizioni economiche dei nigeriani. Entrambe disattese.
“Esaurimento da combattimento”
La sua rielezione, che molti analisti vedono complicata, dipenderà da come riuscirà a spiegare ai nigeriani i suoi fallimenti, che giustificazioni, convincenti, saprà trovare. Intanto, Buhari ha cominciato ad ammettere le difficoltà affrontate dall’esercito nella lotta contro Boko Haram, che ha ucciso almeno 27mila persone e ha provocato una grave crisi umanitaria, con 1,8 milioni di sfollati dal 2009.
In un’intervista all’emittente Arise TV, Buhari ha spiegato che l’esercito sta vivendo quello “che chiamerei esaurimento da combattimento”, aggiungendo, tuttavia, di essere contrario a licenziare i vertici militari. Una spiegazione poco convincente, visto che gli attacchi di Boko Haram si moltiplicano in quella che sembra sempre più una macabra competizione a provocare vittime.
Tre fazioni, un solo terrore
Il gruppo, infatti, nel 2016 si è diviso in due fazioni: una guidata dal leader storico Abubakar Shekau, denominata Jamaatu Ahlil Summah Lil Da'awatu Wal Jihad, e l’altra, conosciuta come Stato Islamico in Africa occidentale (ISWAP), da Abu Musab al-Barnawi, che ha giurato fedeltà all’Isis. Una terza fazione, identificata solo questo mese dai servizi nigeriani, ha giurato fedeltà al “Gruppo per l’affermazione dell’islam e dei musulmani” (GSIM), affiliato ad al-Qaeda per il Maghreb Islamico (AQMI). Un ginepraio inestricabile.
Gli analisti, come osserva Marco Cochi in un articolo pubblicato da Nigrizia.it, “ritengono che dietro questa nuova ondata di violenze ci sarebbe una nuova faida all’interno della fazione che ha causato l’eliminazione di uno dei suoi massimi esponenti: Mamman Nur Alkali, jihadista di lungo corso con vari legami internazionali, considerato il numero due dell’Iswap, anche se da molti era ritenuto come il suo vero capo”.
Troppo moderato per vivere
Nur avrebbe pagato con la vita la sua “linea relativamente moderata, contraria all’uso di ragazze kamikaze e favorevole al dialogo con le autorità di Abuja per porre le basi per il disarmo del gruppo”. Dopo la morte di Nur “l’Iswap ha intensificato gli attacchi contro le basi militari nigeriane dello stato del Borno”. Gli analisti, infine, ritengono che questa recrudescenza peserà sull’esito delle presidenziali di febbraio. Forse lo determinerà.
Il ruolo dell’esercito
Un ruolo importante, nonostante le sconfitte patite, lo riveste l’esercito. L’altro candidato, e principale avversario di Buhari, alle presidenziali, Atiku Abubakar, ex vice presidente, nonostante sia un uomo d’affari – nel suo programma c’è la creazione di 3 milioni di posti di lavoro e la promessa di far uscire dalla povertà 50 milioni di nigeriani – ha il sostegno dei vertici militari, fatto di non poco conto visto il ruolo che questi giocano negli equilibri del paese, sia dal punto di vista economico sia politico.
Nel 2015 Buhari aveva l’appoggio dei generali, ora non più. Da qui si comprende, anche, la decisione di non licenziare i vertici militari nonostante non siano stati in grado di mettere la parola fine alle violenze di Boko Haram.
Un messaggio dal Biafra
Un altro fattore destabilizzante per la politica nigeriana, che la rende ancora più intricata, è la ricomparsa, nell’ottobre scorso, del leader del Movimento indipendente dei Popoli Indigeni del Biafra, Nnamdi Kanu.
“Chiunque mi ha creduto morto, o prigioniero, o incapace di intervenire di nuovo si deve ricredere. Sono vivo e vegeto. Il Biafra vivrà, non cederemo mai”, ha tuonato Kanu dai microfoni dell’emittente clandestina nigeriana “Radio Biafra”.
La sua ricomparsa – come osserva Raffaele Masto sulla rivista Africa – è un problema per la politica nigeriana. Il caso Biafra ha già scatenato una terribile guerra negli Anni sessanta con due milioni di morti. E il problema è emerso nuovamente e il leader della protesta è appunto Nnamdi Kanu.
Questioni di confine
La questione dell’indipendenza del Biafra si somma ad una serie di problemi per la Nigeria, a pochi giorni dalle presidenziali. Problemi che vanno dalla crisi, mai risolta, del delta del Niger a quella dell’Ambazonia, regione anglofona che chiede la secessione dal Camerun e che confina con la Nigeria, dai conflitti etnici e per la terra nella parte centrale del paese alla recrudescenza della violenza di Boko Haram.