AGI - La parola Apocalisse sulla terra poche volte ha rispecchiato la tragedia e l’orrore in termini assoluti è una di queste è quello consumato a Dresda tra il 13 e il 14 febbraio 1945. Dopo il bombardamento del Bomber Command britannico con il contributo dell’8ª Air Force statunitense, la splendida città capitale della Sassonia – definita non a caso la Firenze sull’Elba per il trionfo architettonico del Barocco, in tempi di guerra città ospedale e centro smistamento dei profughi tedeschi in fuga dall’avanzata dell’Armata Rossa sul fronte orientale – non esisteva più. In una notte erano stati cancellati e inceneriti 680 ettari urbani, il 60% di Dresda, e uccise, secondo stime, almeno 135.000 civili. La distruzione era stata pianificato a tavolino, a partire dalla “Tempesta di fuoco” che avrebbe dovuto distruggere l’indifesa Dresda e i suoi abitanti in un unico rogo.
La popolazione civile diventa obiettivo «attraente»
Nella strategia aerea alleata dell’ultima fase del conflitto, col Piano Thunderclap era stato accentuato l’elemento psicologico della guerra ai civili per scatenare terrore e caos dietro le linee tedesche, e come monito ai sovietici che sarebbero entrati nei territori oggetto di bombardamento e si sarebbero trovati di fronte a una dimostrazione della potenza distruttrice angloamericana. Dal punto di vista politico le città diventavano quindi di per sé stesse «attraenti», stando alle parole di Winston Churchill, indipendentemente dalla valenza strategica, perché gli obiettivi dei centri abitati venivano svincolati dall’esistenza di aree industriali.
Il 3 febbraio una formazione di 937 Fortezze volanti B-17 scortate da 613 caccia dell’8 ª Forza aerea americana avevano attaccato Berlino e scaricato poco più di duemila tonnellate di bombe provocando oltre 25.000 morti, perdendo solo 26 quadrimotori e 8 monoplani. Agli equipaggi era stato però detto che si andava a bombardare un quadrante dov’era acquartierata la 6ª Armata della Wehrmacht. Quella prova di forza doveva intimorire i tedeschi e impressionare i sovietici, l’indomani, all’avvio della Conferenza di Jalta. Ma la delegazione capeggiata da Stalin, in tale sede, insistette sull’appoggio strategico all’avanzata dell’Armata Rossa, interrompendo gli spostamenti, le comunicazioni e i rifornimenti dell’esercito tedesco.
Nel Martedì grasso di festa si consuma la tragedia studiata a tavolino
Nei piani alleati, dopo la dimostrazione su Berlino, toccava invece a Dresda, una città d’arte bellissima con le sue architetture barocche e dall’intensa vita culturale, dove non c’erano fabbriche e non c’erano industrie, e la guerra era arrivata solo con l’allestimento di ospedali per i feriti e l’accoglienza temporanea alle ondate di profughi tedeschi da est: in cinque milioni si erano riversati in Sassonia e in Slesia da inizio gennaio.
Per cinque anni a Dresda non era accaduto niente, e persino i pochi cannoni antiaerei disposti in un primo tempo sul suo perimetro erano stati smontati e portati a difendere Berlino, Lipsia e la regione industriale della Ruhr. La stazione ferroviaria era utilizzata quasi esclusivamente per smistare i profughi. Paradossalmente gli oltre 25.000 prigionieri alleati in zona venivano fatti lavorare nei campi della periferia, godevano di una incredibile libertà di movimento e avevano un rapporto amichevole con la popolazione. E così, la sera di quel martedì grasso del 1945, tornati a casa i bambini in maschera che avevano sfilato per tutta la giornata, come al solito si erano aperti i teatri e le sale da concerto. L’ultimo spettacolo era programmato per le 21.30. L’ora dell’attacco alleato era fissata per le 22.15, undici minuti dopo che i Mosquito e i Lancaster illuminatori del 5° Group avevano indicato la zona da colpire, con segnali luminosi bianchi e verdi e bombe a scoppio ritardato, alla seconda ondata, quella delle 01.15 del 14 febbraio.
Le trappole mortali dei rifugi e l’inganno agli equipaggi dei quadrimotori
Le resistenze a bombardare Dresda erano state manifestate sia a livello di vertice – il capo del Bomber Command Arthur Harris e il vice Robert Saundby, il vice maresciallo Bennett dell’8° Group – sia di equipaggi, ai quali venne falsamente detto che occorreva distruggere la stazione ferroviaria e raccomandato che in caso di atterraggio di emergenza per nessuna ragione dovevano farlo in territorio controllato dai sovietici.
La città dall’alto era illuminata a giorno e neanche un colpo di artiglieria partiva da terra contro le formazioni. Caccia tedesca inesistente. Condizioni ideali per un tranquillo tiro al bersaglio. Furono sufficienti 13 minuti di bombardamento su una superficie ristretta a innescare il Feuersturm, la tempesta di fuoco che aveva incenerito Amburgo il 27-28 luglio 1943, la prima della storia. Alle 22.30, con l’ultimo sgancio dei 244 Lancaster del 5° Group con i terrificanti blockbuster da 4.000 libbre, si consumava la tragedia.
Il centro storico di Dresda già non esisteva più, e nel ventre della città un’umanità terrorizzata e disperata aveva cercato uno scampo impossibile nei rifugi: si salveranno solo coloro che se ne erano invece allontanati. Il vento di fuoco, dagli iniziali 60-70 kmh, soffiava già a 130 e penetrava dappertutto. Nei rifugi i corpi si dissolsero, in migliaia arsero vivi, o soffocarono per l’ossido di carbonio, o vennero asciugati all’istante da temperature impossibili.
Quando arrivò la seconda ondata di 551 bombardieri il massacro era già in atto: mancavano le migliaia di profughi ammassati alla stazione e anche lì fu una carneficina. Era stato studiato a tavolino anche di coinvolgere di proposito le squadre di soccorso provenienti da città vicine e i vigili del fuoco impegnati in un’impresa impossibile, Alcuni puntatori, disgustati da quello che non vedevano ma immaginavano, di proposito indicarono aree in aperta campagna per lo sgancio.
Il repertorio degli orrori impresso a fuoco ancora oggi sulle pietre
Quella notte su Dresda si riversarono 2.700 tonnellate di bombe. Solo 5 Lancaster non rientrarono alla base, appena lo 0,6% dell’intera forza aerea. Una colonna di fumo alta cinque chilometri si stagliava a indicare dove prima c’era Dresda. Il numero preciso delle vittime non sarà mai possibile. I morti identificabili in quel carnaio furono 39.737. I feriti orrendamente ustionati vennero finiti con un pietoso colpo di grazia dai soccorritori.
Il rogo ci metterà diversi giorni a estinguersi, mentre le operazioni di recupero dei cadaveri carbonizzati e irriconoscibili si trascineranno per settimane. Cumuli di corpi risparmiati dal fuoco vennero bruciati per impedire l’insorgere di epidemie. La cifra di 135.000 vittime del bombardamento terroristico è approssimativa e convenzionale. Nel 1969 l’ex prigioniero di guerra alleato, Kurt Vonnegut, consegnerà alle stampe il romanzo “Mattatoio n. 5” dove ripercorrerà gli orrori del bombardamento che aveva visto con i propri occhi e da cui si era salvato. Quando Dresda venne ricostruita, si utilizzarono dove possibile le stesse pietre degli antichi palazzi. Che erano diventate nere sotto l’effetto del Feuersturm e non fu possibile in alcun modo riportarle al bianco originale. Ancora oggi sono così.