AGI - Da 46 anni un uomo attende di essere giustiziato. Da dieci aspetta di sapere se qualcuno gli crederà e commuterà la pena di morte in assoluzione. È l'incredibile storia di Iwao Hakamada, ex pugile oggi 88enne, finito sotto processo 58 anni fa per aver sterminato una famiglia, ma rimesso in libertà nel 2014 in attesa di un nuovo processo, dopo i dubbi sollevati da più parti sulla legittimità della sua condanna.
Hakamada è il detenuto più longevo nel braccio della morte, non solo in Giappone, ma in tutto il mondo e giovedì un tribunale deciderà se dovrà essere giustiziato o essere assolto.
È stato condannato per la prima volta nel 1968 per l'omicidio del suo capo, della moglie dell'uomo e dei loro due figli adolescenti. Ma nel corso degli anni sono emersi dubbi su prove fasulle e confessioni estorte che hanno messo sotto esame il sistema giudiziario giapponese accusato di tenere "in ostaggio" i sospettati.
"Da così tanto tempo combattiamo una battaglia che sembra infinita", ha detto ai giornalisti a luglio la sorella di Hakamada, Hideko, 91 anni, "Ma credo che questa volta sarà messa la parola fine".
Nel frattempo la Procura ha ribadito la convinzione che l'ex pugile sia colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio".
Il Giappone è l'unica grande democrazia industrializzata, oltre agli Stati Uniti, a mantenere la pena capitale, una politica che gode di un ampio sostegno pubblico. Hakamada è il quinto condannato a morte cui è stato concesso un nuovo processo nella storia del Giappone del dopoguerra. Tutti e quattro i casi precedenti si sono conclusi con l'assoluzione. Dopo decenni di detenzione, per lo più in isolamento, la salute di Hakamada è peggiorata e a volte sembra che "viva in un mondo di fantasia", ha detto il suo avvocato, Hideyo Ogawa.
Sebbene la Corte Suprema abbia confermato la condanna a morte di Hakamada nel 1980, i suoi sostenitori hanno lottato per decenni affinchè il caso venisse riaperto. Una svolta è venuta nel 2014, quando fu concesso un nuovo processo sulla base del fatto che i procuratori avrebbero potuto falsificare le prove. Da allora Hakamada ha lasciato la prigione e attende la nuova sentenza. L'avvio del nuovo processo è stato rinviato per anni, fino al 2023, per cavilli legali.
All'epoca del suo arresto, Hakamada negò di aver derubato e ucciso le vittime, ma confessò dopo quello che in seguito descrisse come un brutale interrogatorio della polizia. Tutta l'accusa si fonda su un mucchio di vestiti macchiati di sangue trovati in una vasca di miso (pasta di soia fermentata) un anno dopo gli omicidi del 1966. La difesa sostiene che gli investigatori hanno probabilmente piazzato i vestiti, poiché le macchie rosse su di essi erano troppo brillanti, ma i pubblici ministeri affermano che le prove scientifiche dimostrano che la vivacità del colore è credibile.
Ma al di là del singolo caso, la vicenda Hakamada ha mostrato le imperfezioni di un sistema giudiziario che comunque prevede come massima pena la morte. In Giappone, condannati alla pena capitale vengono informati della loro impiccagione solo alcune ore prima dell'esecuzione.
Quello di Hakamada è "solo uno degli innumerevoli esempi del cosiddetto sistema giapponese di 'giustizia degli ostaggi'", ha detto all'AFP Teppei Kasai, responsabile del programma Asia per Human Rights Watch.
"I sospettati sono costretti a confessare attraverso lunghi e arbitrari periodi di detenzione" e spesso vengono "intimidito durante l'interrogatorio".