AGI - Tensione alle stelle in Venezuela dove 21 dei 30 milioni di cittadini sono attesi alle urne dalle 6 alle 18 locali di domenica per le elezioni presidenziali ad alto rischio violenza, il cui esito incerto potrebbe segnare la fine di un'era e far scoppiare un vero incendio sociale.
Il confronto diretto sarà tra il presidente uscente, Nicolas Maduro, 61 anni, il candidato del Psuv in lizza per un terzo mandato e per protrarre 25 anni di chavismo, in qualità di erede dell'ex capo di stato Hugo Chavez - in carica dal 1999 al 2013 - figura iconica in patria.
Di fronte, troverà l'oppositore Edmundo Gonzalez Urrutia, 74 anni, diplomatico, candidato della Piattaforma democratica unita (Pud), viene spesso presentato come "l'antitesi del chavismo", il "nonno tranquillo della resistenza". Era uno sconosciuto fino a poche settimane fa, quando è dovuto subentrare alla più carismatica Maria Corina Machado, dichiarata ineleggibile dalla Corte suprema. Originario di La Victoria (100 km dalla capitale), con alle spalle studi e incarichi prestigiosi in Europa e negli Stati Uniti, Gonzalez è una figura consolidata e rispettata dell'opposizione, avendo lavorato dietro le quinte alla creazione della Mesa de la Unidad Democratica (Mud), dal 2008, ma poco carismatica.
Lo scorso gennaio ha accettato di essere il candidato "provvisorio" della Piattaforma unitaria democratica (Pud), erede della Mud, che sperava di poter fare partecipare Machado, vincitrice della primaria, ma poi esclusa pretestuosamente dal voto, oppure un altro esponente di opposizione.
Gli altri otto candidati alle presidenziali sono invece dei nomi registrati al Consiglio nazionale elettorale (Cne), ma il loro peso politico appare marginale.
In questo faccia a faccia incandescente, le due parti sono sicure di vincere e rifiutano ogni concessione, col rischio concreto di far sprofondare il Venezuela, già in ginocchio economicamente, nel caos totale.
"C'è un vasto movimento che chiede il cambiamento. Lo si chiede come si chiede il cibo, l'acqua. è una questione esistenziale. In condizioni di voto normali, domenica ci sarà una vittoria estremamente solida dell'opposizione. è impossibile che Maduro vinca": a parlare è Luis Salamanca, professore dell'Università centrale del Venezuela.
In una guerra dei sondaggi, sono molto variabili le percentuali assegnate a ciascuno dei due principali sfidanti. Da un lato i media vicini a Palazzo Miraflores pubblicano da settimane rilevazioni che indicano il presidente in ampio vantaggio sull'avversario, con circa il 57% per il leader chavista contro poco più del 15% per lo sfidante. Al contrario El Nacional, quotidiano vicino all'opposizione, evidenzia l'aumento constante del margine a favore di Gonzalez, giunto fino al 59% contro il 33% di Maduro, sulla base dell'indagine di Strategie ClearPath. L'ultimo sondaggio ORC accredita Gonzalez del 60% delle intenzioni di voto mentre il presidente uscente sarebbe fermo al 13%.
Tuttavia, dal 1999 l'opposizione ha vinto solo due elezioni nazionali: nel 2007, quando è stato respinto un referendum per la riforma della Costituzione venezuelana, e nel 2015, quando ha ottenuto la maggioranza assoluta in Parlamento.
Il presidente uscente, bollato dai suoi oppositori come "dittatore", non demorde, lui che gode dell'appoggio dell'esercito: "L'avvenire del Venezuela per i prossimi 50 anni si decide il 28 luglio, tra un Venezuela di pace o di violenze e conflitti" ha dichiarato Maduro, al potere dalla morte di Chavez nel 2013.
È alla guida di un Paese che in passato è stata tra le più ricche dell'America latina grazie al petrolio, ora impelagata in una drammatica crisi economica, come conseguenza della corruzione e di una cattiva gestione. La produzione di petrolio è crollata, passata da 3,5 milioni di barili al giorno nel 2008 a 400 mila nel 2020 e attualmente a un milione di barili al giorno. Il Pil si è ridotto dell'80% in dieci anni, con un'iperinflazione che ha costretto le autorità a una parziale "dollarizzazione" dell'economia.
Sette milioni di venezuelani sono fuggiti dal Paese - in questi giorni sono in tanti a varcare il confine colombiano per andare a votare- e la maggior parte di coloro che sono rimasti in patria vive con pochi dollari al mese. Il sistema sanitario e quello educativo sono in uno stato di completo abbandono, le strade sono spesso inagibili non appena si esce da Caracas, il carburante scarseggia e l'elettricità viene razionata.
Per questa situazione drammatica, il potere punta il dito sul "blocco criminale", accusato di essere la causa di tutti i problemi del Venezuela: ovvero gli Stati Uniti, ma non solo, che hanno imposto dure sanzioni per cercare di allontanare Maduro dal potere dopo la sua rielezione contestata nel 2018, al termine di un voto inficiato da frodi su vasta scala, denunciate dall'opposizione. Per giunta le manifestazioni furono represse nel sangue, facendo scattare un'indagine della Corte penale internazionale (Cpi).
A distanza di sei anni si sta riproponendo uno scenario molto simile. Nonostante il riavvicinamento di Caracas con la Russia, Cuba, l'Iran e la Cina, gli Stati Uniti rimangono comunque un attore centrale nella crisi venezuelana.
In un contesto politico molto fluido a Washington, la Casa Bianca ha comunque cercato di spingere Maduro a tenere elezioni "democratiche, libere e competitive", ma finora i segnali che arrivano dal potere venezuelano sembrano andare in un'altra direzione. Dall'ineleggibilità della favorita Machado all'esclusione degli osservatori elettorali dell'Unione europea, Maduro non appare in vena di voler cedere il potere in caso di sconfitta, che potrebbe evitare manipolando i risultati o annullando l'esito delle urne, come prospettato da diversi analisti.
Nonostante questi rischi concreti, per motivi di realpolitik - far ripartire la produzione di greggio venezuelano anche per compensare le crisi in Ucraina e in Medio Oriente - Washington non sta esercitando troppe pressioni su Maduro. Il timore americano è inoltre quello di una nuova ondata di immigrazione in caso di una sua riconferma.
Maduro, per convincere gli elettori, rinnova a gran voce la sua promessa di un "rilancio socioeconomico dietro l'angolo" e cerca di normalizzare i rapporti col mondo occidentale per aver accesso a nuovi finanziamenti, anche se il suo modello economico è più quello cinese. Anche il discreto Gonzalez Urrutia promette il "cambiamento" e una "nuova prosperità", ma con una liberalizzazione economica e delle privatizzazioni.
I rischi di violenza dopo l'annuncio dei risultati sono valutati come molto alti, motivo per cui sarà decisiva la reazione delle forze di sicurezza venezuelane, pilastro del potere di Maduro, almeno finora. Secondo l'Istituto internazionale di studi strategici (Iiss), nel 2020 le forze armate venezuelane contavano 343 mila uomini, dimensioni simili a quelle dell'esercito messicano, a fronte di una popolazione quattro volte inferiore.
Durante la campagna elettorale Foro Penal, ong di difesa dei diritti umani, ha registrato ben 102 arresti nei ranghi dell'opposizione oltre a una lunga scia di violazioni dei diritti umani, detenzioni arbitrarie da parte del potere, ufficialmente per scongiurare sabotaggi vari.
Maduro si dice certo di avere l'esercito dalla sua parte, mentre in una lettera aperta ai militari Gonzalez ha ricordato che devono "rispettare e far rispettare" il risultato delle elezioni del "popolo sovrano".