AGI - Appena cinque anni fa per il Sudan sembrava sorta l’alba di una nuova era. Le sommosse popolari iniziate nel 2018 avevano spinto Omar al-Bashir a lasciare il potere dopo trent’anni di dominio incontrastato. Le autorità transitorie avevano avviato riforme di impronta liberale che avevano allentato la rigida interpretazione della sharia in vigore durante la dittatura. Gli scontri tra fazioni, complici i desideri di rivalsa dei sostenitori dell’ex presidente, avrebbero però col tempo preso il sopravvento e riportato il Paese sull’orlo del caos finché, nell’ottobre 2021, il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan non instaurò un governo militare, pur mantenendo la facciata di un esecutivo guidato da un primo ministro civile. I conflitti interni avrebbero presto lacerato anche le forze armate. A capo dei ribelli si mise un ex signore della guerra che, prima di tradirlo sostenendo la rivolta, fu tra i più spietati esecutori degli ordini di Bashir: il generale Mohammed Dagalo, nome di battaglia “Hemedti”, che grazie alla sua lealtà al regime aveva costruito un impero economico che lo aveva fatto diventare uno degli uomini più ricchi, se non il più ricco, del Paese.
Per le élite di Khartum che compongono parte dei vertici delle forze armate, Dagalo restava comunque un sanguinario parvenu, un nomade semianalfabeta del Darfur, dove partecipò alla cruenta pulizia etnica ordinata da Bashir contro la popolazione non araba. Oltre tre lustri di stragi e stupri di massa, dal 2003 fino alla caduta del dittatore. Una carneficina costata centinaia di migliaia di vite dove si distinsero per ferocia i famigerati janjaweed, miliziani che poi si sarebbero riciclati in gran parte nelle Forze Rapide di Supporto, l’esercito personale di “Hemedti”, che nell’aprile del 2023 cercò di spodestare Burhan e l’esercito regolare, arrivando addirittura a mostrarsi pentito per aver partecipato alla cacciata di Bashir. Rancori e diffidenze di vecchia data contribuirono a precipitare il martoriato Paese nel baratro della guerra civile. Le Forze Rapide di Supporto avrebbero presto preso il controllo della tradizionale roccaforte del Darfur e di gran parte di Khartum e delle città vicine alla capitale, costringendo il governo a trasferirsi a Port Sudan. La situazione sul campo, al momento, appare stagnante: si combatte ma nessuno dei due campi appare destinato a prevalere. A pagare il prezzo più alto, come sempre, sono i civili. L’economia è ferma, le infrastrutture sono al collasso e la situazione sanitaria è in continuo peggioramento. A raccontarci una delle più gravi crisi dimenticate in corso sul pianeta è Franco Masini, coordinatore medico del centro di cardiochirurgia di Emergency a Khartum.
Come si è evoluto lo scontro tra esercito e paramilitari dall’inizio delle ostilità?
“La situazione non sembra essersi modificata moltissimo dall’inizio, almeno da quello che riusciamo a cogliere, salvo una leggera prevalenza dei paramilitari. Le Forze Rapide di Supporto hanno guadagnato un po’ di terreno sia a Khartum che a Wad Madani, una città a un paio d’ore dalla capitale, e tengono gran parte del Darfur. Qui a Khartum la situazione è molto problematica, è una citta deserta e spettrale. I negozi sono chiusi, le case che non sono state colpite o distrutte sono deserte, non circola nessun mezzo e le uniche auto si vedono ai bordi delle strade, mezze distrutte. Dal punto di vista della vita civile è una bruttissima situazione. Vivere a Khartum è difficile, ti combattono davanti casa. Da 10 giorni non ci sono più comunicazioni, tutte le compagnie di telecomunicazioni sudanesi sono in blackout, le linee sudanesi non servono più a niente. Noi abbiamo un’antenna satellitare e riesco a comunicare più facilmente con lei in Italia che con la nostra clinica di Port Sudan”.
La popolazione ha quindi abbandonato la capitale, ancora contesa tra i due fronti. Quanti sono gli sfollati in tutto il Paese?
“Si parla di 7 milioni di sfollati. Una parte minoritaria, circa un milione, se ne è andata in Paesi vicini: Egitto, Ciad, Sud Sudan, Uganda. Il resto si è disperso nelle città del resto del Paese non interessate dai combattimenti. Oltre che da Khartum, in molti fuggono dal Darfur, zona molto colpita dalle ostilità. Molti dei profughi della capitale si erano spostati a Wad Madani per poi essere costretti a sfollare di nuovo dopo che un mese e mezzo fa la città era diventata teatro di scontri, per poi essere presa dai paramilitari. La situazione dei civili è pessima: dal punta di vista economico, dal punto di vista sanitario, dal punto di vista della sicurezza… L’emergenza sanitaria la vediamo tutti i giorni. Curiamo soprattutto malattie delle valvole cardiache, impiantandone di meccaniche che necessitano di una terapia anticoagulante che va presa tutti i giorni, pena il loro malfunzionamento. Stiamo assistendo a un picco di valvole che si bloccano perché i pazienti non riescono a raggiungere i nostri centri per avere la terapia. Abbiamo pensato di aprire centri periferici in modo di far fronte a questo disastro sanitario e umanitario. In tutte le guerre quelli che ci vanno di mezzo sono i civili. Anche la mera sopravvivenza è un problema. Le banche sono chiuse, i negozi sono chiusi e nessuno guadagna più niente”.
Riuscite ad avere rapporti neutrali con entrambi i contendenti?
“Noi abbiamo sempre affermato la nostra assoluta neutralità che ci è sempre stata riconosciuta in più di vent’anni che siamo in Sudan. Prima avevamo sempre dovuto relazionarci con un governo unico. Ora entrambe le parti conoscono il nostro modo di agire e abbiamo avuto rapporti sia con esercito che con paramilitari, altrimenti non saremmo ancora in piedi dopo 10 mesi di guerra. Al momento siamo in una zona che, come gran parte di Khartum, è sotto il controllo delle Forze Rapide di Supporto. Siamo uno dei non molti ospedali ancora aperti nella capitale e ci è stato garantito da entrambe le parti che non siamo un obiettivo bellico. Questo chiaramente non significa che non ci siano rischi, in una situazione di guerra può capitare sempre che un colpo vada nella direzione sbagliata”.
Quante delle vostre strutture sono rimaste operative in Sudan?
“Avevamo quattro strutture in tutto. Una è quella da cui le parlo, il centro di cardiochirurgia Salam, quello tecnologicamente più avanzato. Nei pressi di Khartum avevamo un ambulatorio pediatrico nel sobborgo di un campo profughi, con un milione di rifugiati dal Ciad e dal Sudan in condizioni pessime. Una situazione infernale, molto difficile. Quello lo abbiamo dovuto chiudere perché era in una zona non sicura, dove non potevamo continuare a operare. Poi avevamo due ospedali pediatrici: uno a Port Sudan, oggi capitale de facto, che è ancora aperto; l’altro, nel Darfur, è rimasto aperto fino a novembre/ dicembre. Era una situazione molto complicata, si combatteva davanti all’ospedale, non ci sono più state le condizioni di sicurezza e lo abbiamo dovuto chiudere, dopodiché è stato saccheggiato. Ora stiamo cercando di riaprirlo dopo contatti con le Forze Rapide di Supporto. Le ricadute della guerra sulle nostre attività sono a vari livelli, perché è molto difficile tenere aperto un ospedale come quello in una situazione di guerra. Non riusciamo a muovere il personale, abbiamo problemi con i rifornimento di gasolio e di cibo, i pazienti non riescono ad arrivare, abbiamo difficoltà a ottenere i visti di ingresso nel Paese per il personale internazionale. Problemi di tutti i tipi. Ci serve personale, che in buona parte è locale, ci serve materiale, ci servono farmaci, ci servono risorse economiche. Prima eravamo finanziati per il 40% dal governo, dall’anno scorso abbiamo dovuto ridurre il budget in maniera molto significativa perché, senza un’autorità centrale, sono venuti a mancare alcuni milioni di euro. Abbiamo un problema molto serio dal punto di vista economico, dovremo far fronte a una crisi molto importante”.
Di recente ha visitato Port Sudan, dove si è trasferita ora tutta l’attività amministrativa. Com’è la situazione nella capitale de facto e quanto si sono complicati gli spostamenti da una parte all’altra del Paese?
“Ci sono stato per 12 giorni. È una città sovraffollata dove la gente dorme per strada e la conseguenza di tutto questo è stata un’epidemia di colera che per fortuna sta un po’ rientrando ma le condizioni igieniche ne hanno risentito. Prima della guerra, il viaggio da Khartum a Port Sudan si faceva in una notte. Ora, quando va bene, per ottenere i visti e il permesso di muoversi ci si mette in tutto almeno 10-15 giorni per un viaggio che è già di per sé diventato molto più lungo e problematico a causa dei numerosi posti di blocco”.
Ha mai avuto problemi ai posti di blocco?
“In qualcuno sono stato trattenuto più a lungo che in passato, molti altri li ho superati agevolmente. Il viaggio è diventato molto più complicato dal punto di vista amministrativo, bisogna ottenere permessi sia dall’esercito che dei paramilitari, è diventato più problematico andare per uffici, a volte dobbiamo cambiare tragitto a causa dei combattimenti ma non abbiamo mai avuto problemi seri lungo la strada”.
Ritiene che il conflitto possa protrarsi ancora a lungo?
"La speranza iniziale di una guerra breve che si risolvesse in poco tempo e già tramontata da tempo. Nessuno dei due contendenti sembra avere voglia di fermarsi e non c’è niente che faccia sperare che si seggano a un tavolo delle trattative. Nei primi mesi c’erano stati dei colloqui che avevano portato a tregue che poi per l’80/90 per cento non venivano rispettate. Ora non ci sono nemmeno colloqui, non c’è alcuno spiraglio che possa far pensare che la guerra finisca in tempi ragionevoli. La prospettiva non è per niente positiva. Leggendo alcuni commentatori, si comincia a pensare che possa diventare un conflitto cronico e lungo come in altri Paesi africani".