AGI - La Striscia di Gaza è un budello di terra lungo 41 chilometri e largo 10, dove vivono circa 2,2 milioni di persone. E’ uno dei posti più popolati del mondo. A Gaza City la densità di abitanti per chilometro quadrato è di oltre 5mila unità, pochi rispetto agli oltre 20mila di Mumbai, la città più densamente abitata del mondo, ma tantissimi rispetto ad altre aree, come i comuni intorno alle pendici del Vesuvio che, malgrado i rischi di eruzione, sono una delle zone più popolate d’Italia e dove vivono oltre 2mila abitanti per chilometro quadrato.
Dagli anni Ottanta in poi circa la metà della forza lavoro di Gaza svolge un’attività in Israele e in media percepisce un reddito pro capite circa quattro volte inferiore a quello degli israeliani. Il miraggio di un posto di lavoro oltre il confine israeliano si è comunque molto ridotto da quando Hamas ha conquistato il potere a Gaza e Israele ha imposto l’assedio dell’enclave, proibendo, dopo lo scoppio dell'Intifada del 2000, le trasferte a circa 120.000 lavoratori palestinesi.
Nella Striscia la disoccupazione dilaga – si aggira attorno al 55%, secondo le statistiche dei sindacati palestinesi - e si guadagna 10 volte meno di quello che si ottiene in Israele, cioè una miseria, visto che il salario di un pendolare palestinese all'interno di Israele varia da 300 a 400 shekel, cioè dai 70 ai 110 euro al mese, mentre il suo salario a Gaza non supera i 30 shekel.
A Gaza vivono circa 1,7 milioni di rifugiati registrati, pari a due terzi della popolazione totale. La maggior parte sono discendenti dei 250.000 palestinesi che furono cacciati dalla loro terra verso l'enclave costiera durante la guerra arabo-israeliana del 1948, quando Israele fu creata. Complessivamente ci sono 68 campi profughi palestinesi, 58 dei quali sono stati istituiti nel 1948-1950.
Di questi 8 sono a Gaza. A fornire l'accesso ai campi profughi dal 1949 è l'Unrwa (l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente), istituita proprio quell'anno per amministrare vari programmi per i rifugiati. Da allora questa agenzia ha registrato i rifugiati palestinesi e i loro discendenti definendoli come "persone il cui luogo di residenza normale era la Palestina durante il periodo dal primo giugno 1946 al 15 maggio 1948, e che hanno perso sia la casa, sia i mezzi di sostentamento a causa del conflitto del 1948".
Israele contesta questa classificazione e dunque non considera i residenti palestinesi di Gaza dei rifugiati. Il più grande degli 8 campi profughi di Gaza si chiama Jabaliya, anche se, come si legge in una cronaca pubblicata in questi giorni sul New York Times, non ha le file di tende bianche spesso associate ai campi delle Nazioni Unite per le persone costrette a fuggire dalle loro case durante le guerre.
Da 70 anni e cioè dalla guerra arabo-israeliana del 1948, Jabaliya è diventato un punto di accoglienza per i palestinesi in fuga, o in esilio. Nel corso di vari decenni questi palestinesi, che inizialmente speravano di tornare rapidamente a casa si stabilirono qui e si misero in cerca di un lavoro, finendo per costruirsi delle abitazioni permanenti. Il campo è quindi diventato quello che è oggi: un povero sobborgo dell'area settentrionale di Gaza City.
Jabaliya, come gli altri campi profughi per palestinesi a Gaza, col tempo, sono tutti diventati dei centri urbani edificati. All’inizio di quest’anno Jabaliya aveva una popolazione registrata di 116.000 persone, per la maggior parte discendenti da coloro che furono costretti a lasciare le loro case in Israele ai tempi della guerra del '48.
Agli abitanti di Jabaliya, come ai due terzi della popolazione di Gaza, dopo decenni di esilio, l'Onu ha assegnato la classificazione di rifugiati, rendendoli così idonei a ricevere gli aiuti dell'Unrwa, la quale gli fornisce assistenza sanitaria, cibo, lavoro, prestiti di emergenza, alloggi, assistenza ed educazione. Israele, come detto, si oppone alla definizione dei palestinesi come rifugiati e con i suoi ripetuti attacchi aerei ha paralizzato la capacità dell'agenzia Onu di fornire aiuti a Jabaliya e al resto della Striscia di Gaza, creando ciò che i funzionari delle Nazioni Unite e non solo loro, hanno definito una ‘crisi umanitaria’.
"L'attuale crisi trascende le divisioni di razza, cultura e religione, e richiede una risposta umanitaria condivisa, che attualmente manca", sostengono Hina Shahid e Paul Wallace, una dottoressa musulmana e un medico di origine ebraica, che hanno lavorato insieme a diversi colleghi in Palestina, sotto gli auspici della Fondazione dei medici di famiglia in Palestina.
“Tragicamente – scrivono Shaidad e Wallace in un articolo/blog scritto per il British Medical Journal - alcuni dei colleghi medici palestinesi con cui avevamo lavorato in passato sono stati uccisi o feriti, e siamo profondamente preoccupati per i servizi sanitari distrutti e sopraffatti, a corto di forniture e con l'assistenza sanitaria che deve essere razionata e di cui viene salvato solo il trattamento”.