AGI - L’organizzazione fornisce ai partecipanti le tende e l’acqua, anche calda. Tutto il resto, a partire da una lunghissima lista di materiale obbligatorio, viene trasportato in uno zaino il cui peso può variare dai 7 ai 12 chili, a seconda della ‘preparazionè, che costituisce il primo passo da compiere per gli atleti. Il peso dello zaino rappresenta infatti il primo fattore destinato a determinare l’andamento della gara.
L’evento èrganizzato da Racing the Planet, organizzazione che gestisce gare in 4 diversi deserti. Oltre al Gobi il deserto della Namibia, Atacama in Cile e l’Antartide. Chi completa la serie dei 4 entra nel club del ‘Grande Slam’.
Considerando che si tratta di deserti posso dire che quel club per me rimane un miraggio. Dopo tante gare di corsa in montagna, alcune delle quali superiori ai 100 km, si è trattato infatti del mio primo deserto, ma sopratutto della mia prima gara a tappe da compiere correndo e marciando zaino in spalla. Personalmente ho scelto di partecipare alla Gobi March perchè questo deserto ha sempre esercitato su di me un fascino enorme. Allo stesso tempo questa gara ha costituito l’evento attorno a cui ho lanciato una raccolta fondi per alcuni villaggi di montagna distrutti dal terremoto che ha colpito la Turchia lo scorso Febbraio.
Rispetto alle gare di ultra trail da me svolte in passato si è trattato comunque di un salto nel buio. Si può correre cento chilometri sapendo che alla fine della giornata si farà una doccia e una bella mangiata, sapendo che ogni 10-15 km ci sarà un check point con bevande e cibo che rendono inutile portare un pesante zaino. Impossibile allenare la mancanza della doccia e il cibo razionato, negli ultimi tre mesi mi sono preparato alla Gobi March correndo con delle zavorre.
Se sarebbe bastato lo avrei scoperto solo in Mongolia.
Sei tappe per 250 chilometri tra dune e pascoli verdi
Prima della gara
Il giorno prima della gara è il giorno della riunione tecnica e del controllo del materiale. Un passo necessario se si vuole ottenere il numero di pettorale. Dopo una presentazione del percorso scatta il check in del materiale richiesto. Il controllo passa per gli elettroliti, gli integratori e i pasti (liofilizzati) che devono garantire una determinata quantita’ di calorie su base giornaliera, per l’intera durata della competizione.
Il mio zaino pesa 8.6 chili, poteva andare peggio, penso, e finalmente sono pronto a salire sul bus che dopo 5 ore di viaggio ci lascia nel campo 1 mezzo del deserto, da dove la gara partira’ al mattino del giorno dopo.
La sera prima della gara l’atmosfera è distesa. Al campo 1 si scherza e si fa conoscenza, un piccolo spettacolo di musica e danze mongole è l’occasione che raduna tutti i partecipanti a pochi metri dallo start. Alle otto di sera sono gia’ tutti in tenda, gli ‘esperti’ sanno bene cosa li attende, gli esordienti, come il sottoscritto, hanno la testa piena di punti interrogativi.
La mia sarà una notte quasi insonne, trascorsa a girarmi e rigirarmi nel sacco a pelo, disturbando i miei pazientissimi 4 compagni di tenda, 3 italiani e un ticinese.
Tappa 1
Dubbi e punti interrogativi che mi rimangono fino a quando non c’è più tempo per pensare, ma solo per correre. E finalmente si inizia. La tappa è di 35 chilometri, si parte dale rovine del forte di Khar Bulkh Balgas, sede del Kitan fino al 1120, nel periodo noto come ‘delle cinque Dinastiè. L’itinerario passa attraverso valli in cui si muovono eleganti branchi di cavalli mongoli e sfrecciano motorini con a bordo i pastori. è evidente che negli anni le due ruote hanno superato le quattro zampe nelle preferenze dei nomadi. Rimangono eterne le yurte, le tipiche tende circolari dei nomadi da cui spuntano bambini curiosi e adulti occupati con il bestiame e con il formaggio che però non mancano mai di salutare sorridenti.
Sarebbe interessante sapere cosa pensano di questi stranieri venuti da chi sa dove e che oggi vivacizzano il panorama cui sono abituati.
La tappa presenta una sola, lunga, lunga salita, che però apre la vista su un panorama sconfinato e termina in una lunga discesa che spiana la strada verso il primo traguardo. Mi sento bene e riesco anche a spingere negli ultimi chilometri. Lo zaino non mi pesa troppo e sento gia’ vicino il primo traguardo. Quando questo è gia visibile arriva però la sorpresa: un acquitrino di fango e argilla da attraversare nell’ultimo chilometro. Se non si vuole sprofondare fino alle caviglie o peggio, la cosa migliore è saltellare sulle zolle di terra, sperando che tengano. Quelle scelte da me tengono quasi tutte, perchè proprio quando la palude sta per finire scelgo una zolla sbagliata e finiscono nel fango fino alla caviglia. Li lavero’ la sera stessa, la gara è lunga e limitare maglie, pantaloni e biancheria intima è una delle strategie per alleggerire lo zaino.
Tappa 2
Il secondo giorno prevede una tappa di 45 chilometri con più di mille metri di dislivello positivo. Si parte in piano, poi inizia una lunga salita fino a un passo di montagna. La salita termina e apre la strada a una lunga discesa, una serie di lunghissimi falsi piani prima di tre ‘dentini’, tre salite negli ultimi 15 chilometri prima della fine di una tappa che si presenta come una delle più dure. Le valli sono verdi, rocciose, punteggiate da enormi greggi di pecore e capre. Spettacolari pinnacoli di pietra si innalzano sui fianchi del percorso. Mi sento bene, le gambe tengono le salite, non è troppo caldo e nei momenti in cui la fatica e il peso dello zaino si fanno sentire ci pensa il panorama a distrarre la mente fino alla fine della tappa. è andata bene e in classifica generale sono addirittura al nono posto. Mi sento in forma e penso addirittura di puntare a entrare nei primi 10. Un obiettivo destinato a infrangersi contro le dune del giorno dopo e il caldo del ‘tapponè di 80 km che ci attende da li’ a 48 ore.
Tappa 3: 40 km tra montagne, monasteri e dune
Alla fine della seconda tappa ci attende una notte non in tenda, ma in una tradizionale yurta mongola. Una struttura con uno scheletro di legno che si apre e chiude a fisarmonica, tenuta insieme da un complesso sistema di nodi che però “tutti i mongoli sanno montare”, come mi spiega un giovane del posto, guardandomi come se avessi fatto la più stupida delle domande. Dietro le nostre yurte la montagna da salire domani. Una ascesa ripidissima di circa per i primi due chilometri di una tappa di 40 km totali. Due km in cui sono concentrati più di 500 metri di dislivello. Poi tocca a una discesa altrettanto ripida tra le rocce fino a un piccolo e bellissimo tempio buddista. Passo toccando le campane rotanti sperando sia di buon auspicio. Continuo a correre un tratto in piano, un cammello selvatico allatta i due cuccioli mentre altri esemplari, enormi, fanno il bagno in un laghetto poco distante. Sarà l’ultimo specchio d’acqua prima di entrare nel regno delle dune.
Qui il mio crollo, un crollo da cui non mi riprendero’ più. Sono disidratato, all’improvviso la temperatura è salita di 10 gradi. Il percorso prevede la salita su più dune, ma non saprei dire quante per la scarsa lucidita’ di quel momento. Salite rapidissime dove a ogni passo si scivola all’indietro. Rallentano tutti, non solo io, qualcuno si ferma all’ombra dell’unico albero. Ho le scarpe piene di sabbia, sono disidratato ma non riesco a bere, ho continui conati, ma non riesco a vomitare. Devo tirarmi fuori di qui, penso, ma sebbene siano appena 6 i chilometri tra le dune, sembrano non finire mai. Il ritorno sulla terra è un sospiro di sollievo. Aquile e falchi volteggiano sulle nostre teste, resti di carcasse emergono dall’ultima tratto sabbioso, ormai ci siamo, manca un chilometro e il traguardo appare all’ultimo. Lo attraverso camminando senza sapere se si tratti di un miraggio. Al mio fianco un coreano e un americano, anche loro stremati. Scattiamo una foto per un momento che comunque non avremmo dimenticato mai.
Tappa 4: La lunga marcia, 80 km nell’arsura
Le gare a tappe prevedono sempre un ‘tapponè, una tappa molto lunga in cui ‘tutto può accaderè e la classifica può subire dei ribaltoni.
Ed è quello che in effetti accade. Il fortissimo svizzero Reinhold Hugo, fino a quel momento saldamente in testa alla clssifica, cede al caldo e crolla per problemi di stomaco. L’americano Ken Rideout, seguitissimo podcaster e maratoneta che punta a stabilire il record over 50 nelle 5 più importanti maratone al mondo, lo supera e accumula un vantaggio che risultera’ decisivo ai fini del risultato fnale. Rideout ha avuto il merito non solo di aver tallonato Hugo sin dal secondo giorno, ma di averlo assistito quando questo è crollato e aver atteso al suo fianco l’arrivo della jeep con i medici.
Un vero e proprio esempio della sportivita’ e dell’empatia che contraddistingue le gare di trail estremo, in cui i partecipanti sanno bene che le variabili sono fuori controllo, ogni minimo dettaglio si paga e qualcosa può andare storto in qualunque momento per chiunque, nessuno escluso.
Il mio ‘tapponè è invece una giornata di 15 ore che non dimentichero’ facilmente. Dopo aver corso i primi 15 km ho iniziato a cedere al caldo. Prima ho provato a correre 4 e camminare per un km, una sequenza ripetuta due volte, prima che la camminata prendesse inesorabilmente il sopravvento sulla corsa. La temperatura sfiorava i 40 gradi, i saliscendi continui, la brezza sulla cima delle colline ossigeno puro, ma dal km 20 al check point al km 50 per me ogni passo sara' una lotta con me stesso con lo stomaco sempre pronto a ribellarsi e rigettare tutto, lasciandomi privo di liquidi ed energia.
Arrivo al check point al km 50, qui c’è l’acqua calda e ne approfitto per sedermi, idratarmi e mangiare un pure di patate liofilizzato. Sciolgo un dado da brodo in acqua calda e mi sento molto meglio. Riparto, il sole cala lentamente e completo gli ultimi 20 km della tappa correndo. Arrivo al traguardo che è buio, dietro la tenda il leggendario fiume Orkhon. Senza pensarci ci entro fino alle ginocchia, mi lavo nel buio, alzo gli occhi e mi fermo per qualche attimo a guardare un cielo in cui non sembra esserci spazio per una stella di più. Mi infilo nel sacco a pelo, distrutto, non dopo aver ingerito a forza le mie 600 calorie di cibo liofilizzato. piùche una cena è una trattativa con il mio stomaco che da ormai più di 24 ore è sul limite.
Il giorno di riposo
Il giorno seguente è il giorno di riposo. Gli ultimi arrivati del ‘tapponè giungono al campo al mattino, a sole ormai sorto. Al campo tutti approfittano della giornata per idratarsi,fare il bagno nel fiume e mangiare. La tenda dei medici sembra un affollato pronto soccorso di citta’. Il tormento più frequente sono le vesciche. Io mi riposo, lavo la mia poca roba nelle acque ghiacciate del fiume sotto gli occhi di enormi greggi di pecore da cui si produce il pregiato cachemire mongolo e cerco di bere il più possibile. La giornata è calda e soleggiata, ma il Gobi ‘ famoso anche per i repentini rovesci del tempo e nel primo pomeriggio nuvoloni si addensano all’orizzonte. La tempesta si avvicina e a un certo punto fulmini iniziano ad abbattersi a pochissimi chilometri dal campo. L’organizzazione decide di evacuare e farci salire sui pulmann. Passa circa un’ora, l’allerta rientra e si può tornare in tenda. L’aria si è rinfrescata e domani ci attende il campo di battaglia di Gengis Khan.
TAPPA 5: 42 KM, DAL CAMPO DI BATTAGLIA DI GENGIS KHAN A UNA LA VALLE ‘ALPINA’
Si parte con il clima che non promette nulla di buono. “Fino a ieri ti lamentavi per il caldo, ora si sta bene, di che ti lamenti?”. è una frase che mi ripetero’ per le prime due ore e mezza della tappa, mentre attraversiamo una piana in cui l’orda d’oro, l’esercito di Gengis Khan, conquisto’ le vittorie che gli permisero di porre le basi per un impero che dalla Corea si estendeva fino all’Ungheria e che arrivo’ a lambire i confini della Polonia e dell’Austria. Oggi gli unici cavalli che sfrecciano sono quelli semi selvatici dei nomadi. Non piovono le frecce, ma pioggia fredda e grandine, non arrivano attacchi della cavalleria, ma raffiche di vento che rendono anche difficile andare dritti e in alcuni momenti anche stare in piedi.Si fa fatica anche a tenere gli occhi aperti, ma non c’è molta scelta e bisogna tirare dritto, i fulmini si fanno sempre più vicini.
Il cielo inizia ad aprirsi quando di km ne sono passati 20 e abbiamo guadato 4 fiumi sotto la pioggia battente. Sarebbe stato bello avere i guadi ieri, nell’arsura, ma anche starci a pensare è uno spreco di energia che a questo punto non ci si può permettere. Ho un infiammazione al nervo sciatico della gamba sinistra, chiedo al medico qualcosa e mi da una pomata. Ma le pomate funzionano solo per chi ci crede e io non sono tra quelli. Il cielo si apre, si spalanca un prato che tra yurte, cavalli, pastori curiosi e bambini che giocano sale gradualmente nel verde fino a una foresta di conifere. Un panorama che ricorda le Alpi e che mai ci si aspetterebbe in Mongolia. Inizia una salita lunga tra alberi enormi fino a un passo da cui si può solo scendere. Non riesco a spingere e ho dolore a ogni passo, raggiungo il check poin al trentesimo chilometro e chiedo al medico un antidolorifico. Mando giu’ la pillola e mi sento subito meglio. Concludo la tappa a un buon ritmo. Mentre guado l’ultimo fiume prima del traguardo, con l’acqua alle ginocchia penso che ormai la Gobi March è conquistata, con quache rammarico perchè sento che avrei potuto far meglio, ma l’esperienza fatta vale oro per il futuro.
Ultima tappa: 10 km fino al monastero, vincitori e partecipanti
Gli ultimi 10 chilometri, dal campo fino al grande monastero buddista di Derren Zu, almeno in teoria, una sfilata celebrativa verso la fine della gara. E invece si parte in quarta e fino all’ultimo ci si da battaglia in testa, cercando di conquistare un posto sul podio. Non cambiera’ molto. A vincere la Gobi March sarà il fortissimo americano Ken Rideout, esperto maratoneta e Ironman, ma che ha stupito un po’ tutti alla sua prima partecipazione in una gara a tappe. Dietro di lui l’israeliano David Dano, 43 anni, un passato nelle forze speciali dello stato ebraico e un presente da personal trainer, mentre al terzo posto ha chiuso il giovane coreano Yoo Donghyeon, una star del trail in patria ad appena 26 anni.
Quarto il fortissimo svizzero Reinhold Hugo, 51 anni, forse il favorito, ma che ha pagato il crollo del tappone.
Tra le donne la svizzera Noemi Hag ha dominato la gara dal primo giorno. Dietro di lei la tedesca Elise Zander e la britannica Emily Brown.
Da segnalare il primo posto nella categoria 30/40 anni per il ticinese Filippo Rossi, un veterano di questo tipo di competizioni nonostante la giovane eta’ e il grande primo posto della piemontese Mattea Geraci nella categoria donne over 60.
102 partecipanti provenienti da 27 diversi Paesi hanno portato a termine la competizione, 4 gli italiani, tra cui il sottoscritto che ha chiuso al 23mo posto. 11 i ritirati.
Ben 5 le coppie sposate che hanno partecipato all’evento e fino ad ora non risulta che qualcuno abbia divorziato. Da segnalare anche due coppie composte da padri con i rispettivi figlio e figlia.
Uno degli italiani, il bassanese Loïck Mattana, ha portato a termine la gara mentre il figlio Yann si distingueva come il più giovane dei volontari con i suoi 17 anni.
La Gobi March si chiude con il banchetto finale, la consegna dei premi e la proiezione del video racconto di un evento destinata a rimanere impresso nei ricordi di chi ha scelto di vivere per una settimana il leggendario deserto del Gobi.