AGI - Le banlieue della Francia sono riesplose. È dal 1979, con la famosa prima sommossa a Vaulx-en-Velin, alle porte di Lione, all'epoca dei primi "rodeo" con le Bmw rubate, che accade con una certa frequenza. Ben prima, quindi, delle rivolte del 2005, anche in quel caso causate dalla morte di due giovani che fuggivano a un controllo della polizia.
In realtà la situazione è incandescente 365 giorni l'anno in quelle periferie (anche con auto incendiate, atti vandalici, aggressioni e omicidi). Dall'area di Marsiglia alla regione di Parigi, in tutto il Paese sono un migliaio le "cités", agglomerati urbani periferici estremante sensibili dove la polizia non entra da tempo, oppure entra con dei blitz dei reparti speciali di durata brevissima.
Soprattutto per la lotta al traffico della droga. Sono aree dove le gang di giovanissimi si affrontano con coltelli, asce da guerra e Kalashnikov per il controllo del territorio, anche in pieno giorno, sotto gli occhi di mamme con bambini in mano. E le prime vittime sono proprio gli stessi abitanti di quei luoghi.
Magari i genitori di un giovane delinquente, o sua zia o suo nonno, che vedono la propria automobile andare in fumo o che sono costretti a vivere con la paura di prendersi una pallottola in testa davanti al portone di casa, dove i pusher che vivono nello stesso palazzo vendono quotidianamente la loro merce e sono, quindi, bersaglio della banda rivale.
L'epoca coloniale e le origini delle rivolte
Si è scritto tanto in questi giorni su quelli che sono i motivi che sono all'origine di quanto sta accadendo. Ma per capire davvero occorre risalire all'epoca dell'impero coloniale francese, che a differenza di quello italiano è durato molto.
In Algeria la Francia ci è stata ben 132 anni. E poi ci sono stati i protettorati del Marocco e della Tunisia, durati decenni, e ovviamente l'Africa nera occidentale. Era quasi tutta francese. I legami della Francia con quei Paesi sono profondissimi.
Basta guardare il principale canale all news transalpino, France 24, per rendersene conto: ci sono quasi più reportage e programmi dedicati all'Africa che non alla Francia. (In questi giorni diversi italiani si sono espressi negativamente sul colonialismo francese e ancora di più sul modo in cui, nella fase successiva, cioè dal secondo dopoguerra, i francesi hanno gestito gli immigrati provenienti dall'ex impero coloniale.
L'altra faccia del colonialismo
Sono stati ghettizzati e non si è fatto nulla per loro, è l'accusa principale, oltre a quella che la Francia ha solo "depredato" quei Paesi durante il colonialismo. Non è esatto. La Francia in quei Paesi ha costruito città, strade, ospedali, scuole. Ha dato un'istruzione a quelle popolazioni.
È evidente che a un certo punto tutto questo non andava bene: erano padroni in casa di altri. Ma come lo erano gli inglesi in India e in Egitto, i portoghesi nell'Angola e nel Mozambico, i belgi nel Congo o gli italiani in Etiopia (anche se la pagina del colonialismo italiano è meno gloriosa).
Ma andiamo oltre queste considerazioni. Dopo aver dato ospedali, scuole e strade a tutti quei Paesi africani la Francia, come le altre grandi potenze coloniali, dopo la seconda guerra mondiale ha lasciato il continente nero, mantenendo comunque dei legami molto forti, nonostante eventi traumatici come la guerra di Algeria.
Una ferita che è ancora oggi aperta. E negli anni Cinquanta, per sopperire a una carenza di mano d'opera nelle professioni più umili, i francesi andarono a pescare lavoratori nell'ex impero. Si facilitò il loro arrivo e si diede loro la cittadinanza francese.
Questa immigrazione ha proseguito in tutta la seconda metà del ventesimo secolo. All'inizio queste persone andarono a vivere negli HLM (case popolari) delle banlieue, dove già vivevano dei francesi. Ci fu quindi una convivenza vera per un periodo. Piano piano, però, i francesi autoctoni si spostarono altrove.
E loro, invece, rimasero lì. Va detta una cosa, a scanso di equivoci: questi edifici in cui abitano, anche se oggi vengono definiti da alcuni osservatori poco informati come "serpentoni" antiumani, all'epoca erano in realtà considerati abbastanza buoni, dagli stessi francesi delle classi medio-basse.
Erano abitazioni nuove con la luce, l'acqua corrente, le scuole, il verde e i servizi vicini. Senza dimenticare le strutture sportive per i giovani. Certo, non sono la reggia di Versailles, siamo d'accordo, ma certamente erano abitazioni di gran lunga migliori rispetto a quelle dei Paesi di origine dei nuovi arrivati. Un'altra cosa: oltre all'istruzione gratuita questi immigrati hanno potuto usufruire - sempre gratuitamente - dell'ottimo sistema sanitario francese (anche se adesso è in difficoltà per carenza di personale e chiusure di strutture). Hanno anche percepito - e continuano a farlo - delle generosi "allocations familiales", ossia assegni erogati dallo Stato alle famiglie numerose.
L'integrazione fallita
Ma qualcosa non ha funzionato. Non c'è stata una integrazione di massa. È vero. In pochi sono riusciti a crescere socialmente ed economicamente. La stragrande maggioranza è rimasta ferma, al palo. La prima generazione, quella cioè degli anni Cinquanta e Sessanta, viene definita in Francia come la "generazione invisibile", che arrivata sul suolo francese ha lavorato senza creare nessun tipo di problemi.
È stata invece la seconda generazione, nata francese, e poi la terza, e anche la quarta, che si è ribellata e continua a farlo in questi giorni. E la rabbia è cresciuta sempre di più. Già negli anni Novanta il film 'La hainé, 'l'odio', aveva colto il disagio diffuso.
A nulla sono serviti alcuni esempi di successo, penso in particolare nello sport con campioni come Zidane e Mbappè, ma anche nella politica, con Rachida Dati, e nel mondo dello spettacolo con il famoso attore Jamel Debbouze.
Insomma, a differenza dei tanti italiani che dopo aver emigrato in Francia hanno raggiunto posizioni apicali nella società, esattamente come hanno fatto negli Stati Uniti, queste popolazioni non si sono integrate. In particolar modo i "beurs", cioè gli arabi maghrebini. Non si sentono né carne né pesce. Sono infatti sradicati dalla loro cultura africana, islamica, e allo stesso tempo non hanno incarnato la cultura e i valori della società francese, della "Republique". Sono stati respinti, disprezzati? Sono stati considerati cittadini di serie B? In parte forse si'. C'è razzismo da parte della polizia? In parte si', ma come può esserci anche in Italia o in Germania.
Un episodio di metà degli anni Novanta spiega meglio la situazione. Due amici camminano per strada a Parigi, un italiano e un algerino. Sul marciapiede un gruppo di Crs (i poliziotti che vengono utilizzati per reprimere i disordini)li fermano, chiedono dove stanno andando. L'algerino fu bloccato sul cofano di una macchina parcheggiata e perquisito. Fu un'azione energica, senza alcun motivo, che finì così.
È vero che la polizia francese è tendenzialmente abbastanza dura, e alcuni saranno anche razzisti, non c'è dubbio. Ma possono essere duri anche con i bianchi francesi, come è stato il caso con i gilet gialli. Intendiamoci: mai come ai livelli di alcuni poliziotti americani, autori di uccisioni a bruciapelo di persone inermi, con le braccia alzate (nella stragrande maggioranza dei casi le vittime sono dei neri).
Poi ci sono le cosiddette "bavures policieres", come le chiamano i francesi. Letteralmente: "sbavature poliziesche". In altre parole, un gesto sconsiderato da parte di un poliziotto. È quello che è accaduto con Nahel. Ma dietro quel colpo di arma da fuoco sparato c'è anche un pregresso di tensioni che durano da quasi 50 anni, che ha messo anche la polizia a dura prova e che è iniziato nella prima metà dell'Ottocento, in Algeria e negli altri Paesi africani che la Francia conquisto' e domino'.