AGI - Riguardare le immagini dell’assedio di Mariupol - le bombe sull’ospedale, la giovane donna incinta portata via sotto le bombe e che poche ore dopo morirà insieme al suo piccolo - come esercizio necessario per capire cosa accade in altre zone del conflitto ucraino oggi: Bakhmut, Avdiivka e Vuhledar. Un esercizio di memoria, comprensione del presente, ma anche uno strumento per consegnare alla giustizia i responsabili dei numerosi crimini contro i civili.
Ne è convinto, come racconta in un’intervista esclusiva all’AGI, Mstyslav Chernov, il video reporter che con i colleghi Evgeniy Maloletka e Vasilisa Stepanenko - tutti ucraini e tutti dell’Associated Press - hanno rischiato la vita per documentare le prime tre settimane dell’attacco russo alla città portuale che, a marzo dell’anno scorso, era diventata la zona più pericolosa dell’intero conflitto.
“Ovunque le truppe russe si concentrino per puntare a una conquista, la tattica è sempre quella della terra bruciata: bombardare i civili, radere al suolo la città. Mariupol non è solo un simbolo di questa guerra, ma anche lo specchio in cui continua a riflettersi il vero volto dell’invasione russa”, spiega Chernov, a margine del Festival internazionale di giornalismo (Ijf23) che si conclude oggi a Perugia e dove, per la prima volta in Italia, ha presentato con Stepanenko il suo film-documentario “20 Days in Mariupol” (coproduzione Associated Press e Pbs Frontline).
Mentre le bombe cadono, gli abitanti fuggono e salta l'accesso a elettricità, cibo, acqua e medicine, i tre reporter - gli unici giornalisti internazionali rimasti in città - lottano per coprire le atrocità della guerra e riuscire a portare in salvo le 30 ore di girato, che ritengono potrà essere anche “la prova dei crimini di guerra della Russia”.
Presto circondata dai soldati di Mosca, la troupe si rifugia nell’ospedale n° 3, dove assiste al bombardamento del reparto maternità, sempre negato dal Cremlino. La loro miracolosa esfiltrazione, effettuata dall’esercito ucraino dopo 20 giorni, è ormai nota in tutto il mondo. Per quell’immagine scattata il 9 marzo 2022, in cui ha immortalato la 32enne Irina Kalinina portata in barella tra le macerie, mentre si tiene il ventre con una mano per proteggere il suo bambino che non nascerà, Maloletka ha appena vinto il World Press Photo.
“Mariupol è diventata un simbolo, perché è stata sotto attacco dal primo giorno dell’invasione e perché ha subìto un’alta concentrazione di crimini di guerra”, spiega all’AGI Stepanenko, “quando siamo andati nell’ospedale c’erano cadaveri accumulati tutti in una stanza, perché era troppo pericoloso portarli all’obitorio o celebrare funerali. E’ stato spaventoso”.
I filmati girati dai tre reporter non solo documentano la morte e la distruzione - corpi nelle strade e nelle fosse comuni, il bombardamento di condomini, medici che si disperano perché non riescono a salvare i bambini feriti - ma confutano direttamente la propaganda di Mosca, che ha subito bollato il loro lavoro come fake news e continua a sostenere la natura esclusivamente militare dei suoi obiettivi.
“Fornire al pubblico il contesto di una notizia, passata al Tg magari con un servizio di un minuto”, argomenta Chernov, “è fondamentale per capire le proporzioni della tragedia, l'intensità dei combattimenti, per avere gli strumenti con cui analizzare quanto accade: è molto facile mettere in discussione una clip di 30 secondi o una foto pubblicata sul giornale, ma è molto più difficile contestare un'ora o 90 minuti di filmati. Uno degli scopi di questo documetario è dare alle persone un contesto sufficiente per giudicare da sole”.
“Mariupol”, continuano i due giornalisti, “si è trasformata in una città fantasma, ma non è l’unica: il 90% dei suoi edifici sono distrutti e saranno semplicemente demoliti e questo sta accadendo in ogni città occupata dai russi, a Popasna, Soledar, sta accadendo a Bakhmut”.
Dopo l’assedio, i tre giornalisti sono tutti tornati sul campo. “Non abbiamo voltato le spalle a Mariupol”, prosegue Chernov. I tre colleghi hanno continuato a raccogliere le storie di chi è scappato, a indagare su quanto accaduto dopo la loro partenza, come il bombardamento sul teatro di arte drammatica, dove hanno stimato siano morte circa 600, che lì si erano rifugiate. “Abbiamo continuato a raccontare Bucha, Kharkiv, Kherson e Izyum, ovunque siamo andati c’era la stessa violenza e distruzione di Mariupol”, sottolinea Chernov, “fosse comuni torture, orrori che continuano a verificarsi in tutti i territori occupati dai russi”.
“Ogni persona con una telecamera in Ucraina è a rischio - denuncia Chernov - il nostro amico documentarista lituano Mantas Kvedaravicius è stato ucciso, mentre era anche lui a Mariupol. I giornalisti sono vittime sia di fuoco indiscriminato, che di attacchi mirati, perché ai russi non conviene ci siano prove dei loro crimini di guerra. Viviamo in un mondo in cui, però, non è più possibile nascondere quanto accade, continueremo a registrare ogni singolo crimine, continueremo a mostrarlo al mondo e chi ne è responsabile ne risponderà, prima o poi, davanti alla giustizia”.