AGI - A frenare lo sviluppo del movimento di protesta anti-governativo in Iran non è solo la repressione messa in atto dal regime, ma anche la situazione economica del Paese. Ne è convinto Esfandyar Batmanghelidj, fondatore e Ceo del think tank Bourse & Bazaar Foundation, che in un’intervista all’AGI spiega come "a differenti livelli della società, i fattori economici stiano influenzando, in parte, la volontà o la possibilità di unirsi alle proteste”.
A quattro mesi dall’uccisione di Mahsa Amini in custodia della polizia morale, le manifestazioni con cui gli iraniani chiedono di fatto la fine della Repubblica islamica sono ridotte a sporadici episodi di dissenso: in piccoli gruppi, davanti alle carceri, per chiedere di fermare le esecuzioni dei giovani manifestanti condannati a morte, o di notte dalle finestre spente per non farsi scoprire, urlando ‘morte al dittatore’. Per Batmanghelidj, specializzato in diplomazia economica, è "troppo semplicistico" spiegare questo calo solo con la repressione, seppur brutale (quasi 500 morti secondo le Ong, quattro manifestanti giustiziati e oltre 15 mila arresti).
Un decennio di stagnazione
"Penso che la maggioranza degli iraniani sia convinta che il Paese abbia bisogno di fondamentali cambiamenti politici. Si tratta di un sentimento piuttosto diffuso in tutte le classi sociali, sentono che qualcosa si è rotto nel rapporto tra società e Stato che non è più in grado di soddisfare le esigenze primarie", fa notare Batmanghelidj. Ci sono, però, differenti idee su come questo rapporto vada riparato, con una rivoluzione o una riforma costituzionale, “ma in entrambi i casi si tratta di processi che richiedono risorse economiche e che avvengono in un contesto economico che non va sottovalutato”, tiene a sottolineare l'analista.
“L’ultima volta che la situazione economica era così negativa in Iran era alla fine del 2018, quando l’amministrazione Trump aveva imposto nuove sanzioni. Gli ultimi 10 anni sono stati di stagnazione e grandi difficoltà e ora si iniziano a vedere i segnali di una recessione”, spiega Batmanghelidj. “Da una parte, ci sono classe e media e operaia, le cui entrate dipendono per lo più dagli stipendi e che sono preoccupate dall'inflazione (arrivata quasi al 50%), che ogni mese erode il loro potere d'acquisto. Per proteggere i propri risparmi, chi se lo può permettere sta comprando valuta forte, oro, azioni o immobili".
"Dall'altra parte, ci sono le élite economica e politica, che detengono questi beni di cui si registra crescente richiesta e che quindi si arricchisce nonostante la crisi". In parte, questo spiega come mai, nonostante ci sia una condivisione delle istanze della piazza anche nelle classi più alte della società iraniana, “l’élite anche solo economica non ha preso una posizione politica: non è interessata a modificare lo status quo”.
L'inattività politica dei lavoratori
Anche i lavoratori, però, in questi mesi non si sono uniti in modo massiccio alle proteste, ricorda Batmanghelidj. Ci sono stati sporadici scioperi in diversi settori, come quello petrolifero o dei trasporti su gomma, ma i lavoratori "di fatto non sono stati politicamente attivi", sottolinea. I motivi sono diversi: “Sono meno organizzati rispetto al passato, sia a causa delle politiche antisindacali della Repubblica islamica, sia a causa dell'espansione del settore privato che ha frammentato la forza lavoro, ma sono anche in una posizione più precaria. Sono più soggetti a licenziamenti, dunque ricattabili, e in condizioni così difficili, con l'economia iraniana che appare diretta verso la recessione, non possono permettersi di perdere lo stipendio, se non lo stesso posto di lavoro".
La conclusione è che, "a differenza della diffusa convinzione secondo cui le difficoltà economiche contribuiscono ad aumentare la rabbia della popolazione e quindi a rendere più plausibile una rivoluzione, ritengo ci sia invece la possibilità che frenino l'attuazione del processo politico, necessario per arrivare a un cambiamento, a una riconciliazione tra Stato e società”.
“Altri Paesi della regione come Iraq e Libano, hanno avuto significative crisi economiche per un periodo più lungo dell’Iran”, conclude Batmanghelidj, "se crediamo davvero che i problemi economici portino a momenti di trasformazione politica, avremmo già dovuto vedere cambiamenti politici in Iraq e Libano. Credo, invece, che proprio da questi due Paesi arrivi un segnale di allarme per l’Iran: le disfunzionalità economiche rendono più difficile risolvere le disfunzionalità politiche e un Paese può rimanere bloccato in un lungo periodo di crisi”.