Inseguendo il sogno dello sport e dell’agonismo, "un giovane inizia a rinunciare a tutti gli altri aspetti della propria vita", dichiara a The Atlantic, Francesca Cavallerio, psicologa dello sport e docente all'Anglia Ruskin University, nel Regno Unito. Capita, pertanto, che negli Stati Uniti lo sport possa occupare l'intera vita dei bambini. I fine settimana sono pieni di giochi, tornei, viaggi. E “per i più talentuosi, la partecipazione a squadre di club può portare a squadre pubbliche, seguite poi dall’ingresso in quelle nazionali” attraverso la ricerca di borse di studio sportive universitarie.
Infine, giocando nella Ncaa, la National Collegiate Athletic Association, può capitare anche che l'intera identità di un adolescente si possa intrecciare e identificare totalmente con il successo atletico. Aspetto questo, che alla fine può anche rivelarsi un vero e proprio ostacolo, un cruccio per molti giovani atleti nel momento in cui si rendono conto che il loro futuro è un futuro da atleti d’élite. Senza pause né riposi ma solo allenamenti.
E infatti il risultato secondo un sondaggio della Ncaa, “meno del 2% degli atleti universitari continua a praticare sport professionistici” anche perché pur arrivando così lontano nei traguardi, di fatto la durata media della loro carriera professionale nel calcio, nel basket, nel baseball e nell'hockey su ghiaccio va dai tre ai cinque anni. Poi finisce lì e si trovano di punto in bianco pensionati alla tenera età di vent’anni. Un po’ prestino…
Commenta a questo proposito la rivista americana di cultura, letteratura, politica estera, salute, economia, tecnologia e scienza politica: “Molti giovani atleti non si rendono conto di ciò che gli sport hanno fornito loro fino a quel momento, cioè la sicurezza di avere un ruolo definito in un mondo chiuso con regole e guida. Dopo la laurea, infatti, si potrebbe prospettare per loro un futuro alquanto incerto. "Tutte le grandi abilità acquisite come atleta professionista possono essere estremamente utili, ma solo se si trova effettivamente un nuovo percorso, un nuovo obiettivo", dichiara Elodie Wendling, ricercatrice nel dipartimento di gestione dello sport dell'Università della Florida.
Commenta però The Atlantic: “La transizione da un sistema educativo lineare alla normale vita adulta può essere una sfida per qualsiasi ventenne, ma in un'età in cui la maggior parte delle persone sta intraprendendo la propria carriera, gli atleti d’élite ne stanno invece già concludendo una per affrontare poi problemi che la maggior parte delle persone non affronta almeno fino a tarda età”. Ovvero, “gli atleti in pensione, trarrebbero vantaggio dall'avere più di un'identità nella vita ma sono invece costretti a dover fare i conti con questa esperienza ancor troppo giovani”.
Se la vita da sportivo è un sacrifico, non lo è da meno quella post-sportiva. Se ogni attimo in precedenza era controllato dagli allenatori, una mente allenata al rigore non può improvvisamente trasgredire. A cominciare dall’alimentazione. E dal normale inserimento nella vita sociale. Sostituire per esempio il gruppo con cui ci si allena con nuovi amici fuori dallo sport non è per nulla facile. E smettere di fare sport a vent’anni comporta problemi che in genere i più si pongono solo molto in là con l’età. Quelli de pensionati…