AGI - “All’inizio ho pensato fosse un gioco. Non ho realizzato. Poi da lontano ho visto uno degli uomini del commando gettare via un caricatore. A quel punto, il terrore”.
A parlare all’AGI è Stéphane Pinna, sopravvissuto all’attentato di matrice islamica al Bataclan di sette anni fa, il 13 novembre 2015, nel quale furono uccise 90 persone.
Stephane racconta la sua vita prima e dopo quella notte infernale in cui la capitale francese fu oggetto di diversi attacchi. Le sei sparatorie in bar e ristoranti degli arrondissement più centrali e le tre esplosioni nei pressi dello Stade de France causarono in tutto 137 morti – compresi gli attentatori – e 368 feriti.
Stéphane è tra quelli usciti dal teatro indenni. Nel 2015 questo 50enne parigino di origine sarde aveva una vita ordinaria. Un lavoro nel mondo della comunicazione, una compagna e un figlio avuto da una precedente relazione, le uscite con gli amici, la passione per la natura, l’arte e la musica, specialmente il rock e il metal. Il 13 novembre per Stéphane è sempre stato un giorno importante, perché è il compleanno di sua madre. E quell’anno, ha coinciso anche con il concerto degli Eagles of Death Metal al Bataclan.
“Era tanto che aspettavamo di poter vedere il gruppo dal vivo. Nonostante la stanchezza di quel giorno, quindi, ci siamo convinti ad andare”, racconta. Entrato nella sala insieme alla compagna e a un’altra coppia di amici, Stéphane decise di godersi lo show dal parterre. “Avevamo pensato di salire in balconata – spiega – e in particolare sulla sinistra dove c’era più posto, per poter stare più tranquilli, ma alla fine per fortuna abbiamo desistito”. È nel corridoio dell’ala di sinistra, infatti, che nelle ore successive vengono tenute in ostaggio oltre trenta persone.
Quando i terroristi aprirono il fuoco - “a vederli, dei ragazzini”, dice Stéphane - dopo aver passato qualche minuto accucciato per ripararsi dai colpi di kalashnikov l’uomo prese invece la scala a destra, rifugiandosi al primo piano. E lì rimase, prestando soccorso a un’altra persona ferita da uno dei proiettili esplosi. “Mi sono strappato la maglietta e l’ho usata come fasciatura per evitare perdesse troppo sangue. Parlare con lui per rassicurarlo ha aiutato anche me - confida - anche se gestire il terrore di tutti è difficile. La cosa più terrificante per me in quelle ore non sono state le urla, ma i momenti di silenzio”.
Quando finalmente la polizia intervenne poco dopo la mezzanotte Stéphane e gli altri vennero portati di sotto e fatti uscire. “In quegli attimi gli agenti si raccomandarono con tutti di non guardare i corpi - racconta - ma era impossibile. Guardare è anche un modo per umanizzare ciò che stai vivendo. O almeno lo è stato per me”. Ritrovati gli amici quasi per caso, salendo su uno dei bus disposti dal Comune di Parigi per gestire gli spostamenti delle persone coinvolte, Stéphane passò la notte insieme al gruppo continuando a leggere le notizie e cercando di sdrammatizzare l’accaduto.
“Il lunedì successivo è stata la prima volta dopo tanto tempo che mi sono sentito felice di andare a lavoro, mi sono reso conto della fortuna che avevo”, spiega, ma nonostante questo i segnali del malessere iniziarono a manifestarsi ben presto. Prima i sobbalzi per alcuni rumori, come la chiusura delle porte della metro, poi la sonnolenza, la stanchezza, la mancanza di concentrazione e l’assenza di emozioni.
“Tutti iniziarono a interessarsi, anche le persone con cui non si aveva confidenza. Ci si comincia a sentire un animale da circo”, ammette con un certo fastidio. L’uomo non ha mai avuto problemi ad aprirsi con parenti, amici e conoscenti. Ha deciso però di non vedere uno psicologo. Secondo uno studio della Salute pubblica francese, tra le vittime dirette degli attentati alle quali è stato riconosciuto un probabile disturbo da stress post traumatico, il 33 per cento ha fatto questa scelta. Le due ragioni principali si sono rivelate essere l’inadeguatezza del momento e la mancanza di bisogno. Stéphane non è andato in terapia perché sin dall’inizio si è sentito impossibilitato a lamentarsi.
“C’è chi negli attentati ha perso figli, fratelli, compagni, amici. Io no. Io ero vivo e con me tutti i miei affetti”, spiega, sostenendo che “il trauma vissuto da me non è maggiore di quello di chi perde un proprio caro in un incidente”.
Oggi Stephane è andato avanti, anche se il pensiero di quella notte ogni tanto fa capolino e sente che una parte di lui è rimasta in quella sala. Il lavoro è rimasto lo stesso, e il rapporto con gli affetti più cari non è stato stravolto dagli eventi del Bataclan. Al maxiprocesso con cui si è arrivati lo scorso 29 giugno alla condanna di Salah Abdeslam all’ergastolo senza sconti di pena - e a quella di altre 18 persone - ha deciso di non costituirsi parte civile. Non l’ha nemmeno seguito a distanza. “Troppo il timore di ricadute psicologiche, è stata la scelta migliore per il mio benessere mentale”, spiega.
Durante questi sette anni ha perso un po’ dell’ottimismo e della spensieratezza che aveva prima, ma uscire per strada non gli fa più paura come all’inizio. E la passione per i concerti non si è mai arrestata. Il più bello, quello dei King Crimson al teatro degli Scavi di Pompei nel luglio 2018. Proprio in Italia, dove ha le sue radici e dove sogna di vivere in un futuro non troppo lontano.