AGI - Ventenni, ragazzi e ragazze, ma anche casalinghe e pensionati, musulmani conservatori. Nelle grandi città, come nei villaggi dell'Iran protestano da sei giorni contro l'obbligo di indossare il velo per le donne, "ma la loro lotta non è contro l'Islam e i suoi precetti, l'oggetto di questa rabbia è la Repubblica islamica e i suoi 43 anni di repressione delle libertà e dei diritti di un intero popolo".
A fare l'identikit dei manifestanti - che dopo la morte della giovane Mahsa Amini, finita in coma dopo essere stata arrestata dalla cosiddetta polizia morale perché non indossava correttamente il velo - è Solmaz Eikder, 40 anni, giornalista originaria di Teheran e attivista per i diritti delle donne, ora rifiugiata politica in Spagna.
"Le proteste in corso in Iran sono, per alcuni aspetti, qualcosa di inedito", spiega Eikder in un'intervista telefonica all'AGI: "Con l'Onda Verde nel 2009 si protestava contro il risultato delle presidenziali, nel novembre di sangue del 2019 il motivo era stato per il rincaro dei prezzi, oggi invece la gente chiede di cancellare l'obbligo dell'hijab, il simbolo della Repubblica islamica. Si tratta di una battaglia esistenziale, su cui il governo sicuramente non cederà, perché il rischio è il crollo di tutto il sistema".
Un'altra differenza con i passati movimenti di protesta che hanno attraversato ciclicamente la storia contemporanea dell'Iran è che in piazza oggi ci sono membri di tutte le classi sociali. "La maggior parte sono una nuova generazione di ventenni che non vuole nessun leader, non crede nel dialogo col potere e che non teme di rispondere alla violenza con la violenza, come si vede dai video in cui i ragazzi picchiano gli agenti di polizia", racconta Eikder.
A suo dire, questo punto è "molto importante", perché rende le proteste meno prevedibili nel loro sviluppo e potenzialmente meno influenzaibili dalla repressione. C'è anche una differenza geografica significativa: "In passato, le manifestazioni erano solo nella capitale e nelle grandi cittaà", ma ora si stanno svolgendo anche in zone mai interessate prima come l'isola di Kish e in citta' ultraconservatrici come Mashhad - dove di solito non si tengono neppure concerti - e Qom.
"Anche qui, la gente è scesa in strada con slogan nuovi come 'l'Islam non è il nostro problema è il sistema il nostro problema'". "Mahsa e il suo sangue sono solo il simbolo di queste nuove proteste", fa notare Eikder, "la goccia che ha fatto traboccare il vaso di decenni di soprusi delle autorità sui cittadini e di una profonda crisi economica"; basti ricordare l'abbattimento del volo dell'Ukraine International Airlines con a bordo 176 persone sui cieli di Teheran nel 2020, la siccità sofferta dalla regione del Khuzestan l'anno scorso, le decine di morti nel crollo dell'edifico Metropol ad Abadan per l'incompetenza dei funzionari locali.
"Gli iraniani erano esausti e arabbiati già prima della morte di Mahsa, chiedono un cambiamento e non capiscono perché il loro Paese investa tanti soldi per combattere Israele e l'America quando loro non riescono neppure a fare la spesa", conclude Eikdar, "non capiscono perché pur non sapendo come sopravvivere debbano preoccuparsi di rispettare il codice di abbigliamento islamico".