AGI - Sono passati 25 anni dalla tragica morte a Parigi dell’iconica principessa Diana Spencer, il 31 agosto 1997, in un incidente di macchina nel tunnel del Ponte dell'Alma. Un fatto che ha segnato per sempre la Storia, non solo britannica, e rimane impresso nei ricordi personali, come avvolto in una bolla di shock e commozione ancora oggi pressoché intatta. Nel contempo ha continuato ad alimentare nei media, ma non solo, mille dubbi, domande, indiscrezioni, rivelazioni e speculazioni tra cui la consolidata teoria del complotto da parte della famiglia reale.
In occasione di un anniversario altamente simbolico, l’emittente Discovery Investigation ha diffuso “La Double Enquete”, un lungo reportage basato sulle indagini della polizia francese, in particolare sulle scoperte sconvolgenti fatte sul luogo della sciagura da Martine Monteil, capo della brigata criminale, che è ritornata sul giorno della tragedia.
Monteil è stata una delle prime persone ad arrivare sul posto, pochi minuti dopo l’incidente della Mercedes S280 a bordo della quale la 36enne Lady Diana viaggiava con il nuovo fidanzato, Dodi Al-Fayed, 42 anni, imprenditore, produttore cinematografico e produttore discografico egiziano, figlio di Mohammed Al-Fayed, milionario ex proprietario dei magazzini Harrods di Londra.
"Abbiamo iniziato a trovare piccoli indizi. Abbiamo visto segni di freni, pezzi di luce rossa di un'altra macchina. Sul lato abbiamo visto tracce di vernice", ha ricordato a Closer Mag la testimone, prima di rivelare di aver rinvenuto gioielli appartenenti a Lady Diana. "Ho anche trovato delle piccole perle molto fini che appartenevano alla principessa. E’ stata una scoperta straziante” ha ancora raccontato Monteil, visibilmente commossa.
Inoltre, dopo film e documentari che si sono concentrati sull'accaduto per analizzarlo, ne arriva un altro nuovo di zecca: si chiama “Diana - L'ultima verità”. Andrà in onda in prima visione assoluta domani alle ore 22 su Crime+Investigation (canale 119 di Sky) e cercherà di capire cosa è stato trascurato e cosa poteva essere approfondito di quella fatidica notte. Nel documentario Mark Williams-Thomas, ex-ispettore di polizia e pluripremiato giornalista d’inchiesta, analizza, infatti, tutte le circostanze della morte di Diana Spencer con un percorso a ritroso che svela tutti i retroscena e i segreti che da sempre circolano intorno alla figura della Principessa del Galles.
La dinamica dell'incidente
Nella notte tra il 30 e il 31 agosto 1997, pochi minuti dopo aver lasciato il Ritz, in Place Vendome, con a bordo la coppia più in vista del momento, la macchina guidata dall’autista Henri Paul – vice capo della sicurezza del lussuoso albergo allora di proprietà della famiglia Al-Fayed – sfreccia ad una velocità stimata tra 118 e 155 chilometri orari – in un tratto di Lungosenna in cui era allora limitata a 50 km/h – per scappare ai paparazzi che rincorrevano gli illustri passeggeri.
Paul perde il controllo del veicolo che a mezzanotte e mezza si schianta sul muro e sul 13mo pilastro del tunnel della via Georges Pompidou, proprio sotto la piazza del Ponte dell’Alma. L’autista e al-Fayed – seduto dietro con la compagna, senza cinture di sicurezza allacciate – muoiono sul colpo. Lady Di – divorziata un anno prima dal marito, il principe Carlo, madre dei principi William e Harry, allora rispettivamente 15 e 13 anni – è grave ma ancora in vita quando arriva all’ospedale Pitié Salpêtrière, dopo diversi arresti cardiaci nell’ambulanza. Ufficialmente è deceduta alle ore 4:25 come conseguenza di un’emorragia interna.
L’unico sopravvissuto è stata la guardia del corpo di Dodi, Trevor Rees-Jones, che era sul sedile anteriore: rimasto in coma per alcuni giorni, ha perso completamente la memoria di quanto accaduto quella fatidica notte. Oggi il miracolato 54enne si è completamente ripreso e ha accorciato il suo cognome in Rees, abolendo il Jones. Nei mesi scorsi ha trovato lavoro come responsabile della sicurezza di AstraZeneca, la casa farmaceutica che produce uno dei vaccini contro il Covid, ma non è del tutto chiaro il suo ruolo. Prima Rees ha lavorato per le Nazioni Unite e per la compagnia petrolifera Halliburton.
In Francia, in Gran Bretagna e in molti altri Paesi nei giorni, mesi e anni successivi alla sciagura i media sono spesso tornati sulle circostanze dell’incidente avvenuto nel tunnel dell’Alma e, ancor di più, sulle zone d’ombra, i misteri che a distanza di 25 in parte avvolgono ancora la tragica scomparsa della popolare principessa, diventata un’icona, propulsa nell’olimpo dei miti e come tali destinati all’eternità.
L'ipotesi del complotto e le zone d'ombra
Attentato, sabotaggio della Mercedes, gravidanza nascosta, teoria del complotto della famiglia reale sono stati alcuni dei gossip rilanciati senza sosta dai tabloid britannici, ma non solo. Due indagini, una francese e una britannica, sono però giunte alla stessa conclusione: a portare via la ‘principessa del popolo’ è stato un “banale incidente di macchina”.
Ciononostante rimangono alcuni dettagli e lati oscuri della vicenda che ha segnato per sempre il destino dei figli, i principi William e Harry, e in parte dell’inossidabile corona britannica. Domande che hanno riguardato le condizioni meccaniche della Mercedes a bordo della quale Lady D viaggiava, la presunta esistenza di una Fiat Uno bianca che l’avrebbe tamponata pochi secondi prima del dramma.
Altri protagonisti al cuore di questo clamoroso incidente sono i famigerati paparazzi, accusati di aver causato la morte dell’amata principessa britannica, che stavano rincorrendo, a caccia di fotografie e dettagli stuzzicanti sul suo chiacchierato idillio con Dodi, rivelato alla luce del sole soli 20 giorni prima, il 10 luglio 1997, quando la coppia viene immortalata a sua insaputa in alcuni scatti mentre si trovavano in mare a Saint-Tropez, sul Jonikal, lo yacht di proprietà della famiglia Al-Fayed.
Sono ancora loro la sera dell’incidente ad aspettarli fuori dal lussuoso albergo Ritz, anch’esso degli Al-Fayed, nel primo arrondissement di Parigi. Una decina di paparazzi sono appostati all’uscita, motivo per cui Dodi decide di utilizzare l’accesso situato sul retro, per lasciare l’albergo con Diana, evitando occhi indiscreti, accompagnati appunto dalla fidata guardia del corpo, Trevor Rees-Jones.
I tre salgono in macchina, raggiunti dal vice direttore della sicurezza del Ritz, Henri Paul, tornato in emergenza dalle ferie estive per riprendere servizio. Paul prende la guida della Mercedes S280 – una limousine di colore nero, che non avrebbe effettuato il tagliando di revisione ed è stata definita un “rottame” dalla compagnia di assicurazione poiché già incidentata – anche se, dopo la ricostruzione delle dinamiche della serata e delle ultime ore di vita di Diana e Dodi, è emerso che in realtà non avrebbero mai dovuto sedersi in quella macchina ma nella Range Rover con la quale nel pomeriggio avevano viaggiato all’arrivo all’aeroporto di Le Bourget. Alla fine l’autista riesce a seminare alcuni dei paparazzi ma altri continuano l’inseguimento in sella a motociclette, scattando le prime fotografie del mortale incidente, sequestrate dalla giustizia e mai pubblicate.
Charles Spencer e il ruolo dei media
Poco dopo l’annuncio del decesso di Lady Diana, il fratello, Charles Spencer, in vacanza in Sudafrica, ha dichiarato a caldo di “aver sempre pensato che sarebbe stata la stampa ad ucciderla”. Anche davanti a Kensington Palace, ex residenza di Diana, le decine di migliaia di persone raccolte in un commosso omaggio hanno duramente attaccato i giornalisti presenti, apostrofandoli con frasi del tipo: “Non vi vergognate? E’ colpa vostra!”. Due giorni dopo il dramma, sei fotografi e un motociclista della stampa sono stati presi in custodia e poi incriminati dal giudice istruttore incaricato delle indagini, Hervé Stephan.
Altri tre fotografi subiscono la stessa sorte cinque giorni dopo. Tutti sono accusati di essere in parte responsabili della velocità assunta dall'auto che cercava di sfuggire. Nel settembre 1999, dopo due anni di indagine che hanno mobilitato una trentina di investigatori della brigata criminale, i giudici inquirenti hanno archiviato il caso contro i nove fotografi, stabilendo che l'incidente era dovuto all'eccessiva velocità del veicolo e all'ubriachezza di Henri Paul.
Alla stessa conclusione è giunta l'indagine inglese, chiusa nel 2008, nonostante le insistenze di Mohammed Al-Fayed, che confutava queste prove e gridava alla cospirazione fomentata dalla famiglia reale britannica.
"I paparazzi che stavano dietro la Mercedes erano dispersi, nessuno di loro era vicino all'auto quando è avvenuto l'incidente, e questo è stato dimostrato dalle indagini" ha spiegato al quotidiano Ouest-France, Jean-Michel Caradec'h, autore del libro “Chi ha ucciso Lady Di?”, pubblicato nel 2017. "Comunque è per sfuggire loro che Henri Paul è andato in fretta, ma non è stata una manovra dei paparazzi a causare l'incidente" ha sottolineato lo scrittore-investigatore, attribuendolo a “una catena di imprevisti che esclude di fatto la tesi di un complotto e di un'auto sabotata”.
In effetti, nessuno sapeva che la coppia avrebbe preso quella macchina all'uscita dal Ritz, anche perché Dodi avrebbe cambiato i suoi piani venti minuti prima di partire. E’ stata invece confermata dalle indagini l'ubriachezza di Paul: le due autopsie eseguite sul suo corpo senza vita rivelano nel sangue un livello di alcol di 1,87 e di 1,75 grammi, ovvero tre volte superiore al limite autorizzato di 0,5 per litro di sangue.
Le altre teorie
Per il biografo reale residente a Londra dal 1985, Marc Roche, autore anche di "The Borgias in Buckingham" (2022), oggi gli inglesi si sono schierati con la conclusione delle indagini, ad eccezione però di quelli di origine musulmana, che credono che la “famiglia reale abbia fatto uccidere Diana in modo che la madre di un futuro re non sposasse un musulmano".
A non credere alla tesi dell’incidente provocato dall'alcol è invece un certo Claude Garrec, 65 anni, migliore amico di Henri Paul, oggi pensionato e stabilito vicino a Lorient. "Anche se era un bon vivant, non lo vedo bere tutta la sera e mettersi alla guida, soprattutto nel lavoro, era molto professionale e responsabile" ha commentato ai media francesi. E’ così che Garrec ed altre fonti investigative hanno avuto gli occhi puntati su un “fenomeno esterno”, ovvero la famigerata Fiat Uno bianca, che viaggiava sulla corsia di destra e ha urtato la Mercedes pochi secondi prima dell'incidente.
In effetti “lo specchietto retrovisore della limousine si è frantumato e tracce di vernice bianca si sono depositate sulla sua carrozzeria nera” ha confermato Caradec'h nel suo libro. Uno scontro che avrebbe sbilanciato l'auto di Dodi e Diana, prima di schiantarsi contro un palo. Anche se fin dai primi giorni gli inquirenti si sono interessati alla misteriosa Fiat Uno, il suo autista è rimasto introvabile per molti anni, fino al 2007, quando l'Alta Corte di Londra ha aperto un'inchiesta giudiziaria: si trattava di una guardia giurata vietnamita, formalmente identificata da due testimoni.
“Questo signore non è mai andato alla polizia perché avrebbe dovuto essere sul posto di lavoro al momento dell'incidente. Ma gli investigatori francesi hanno finito per convocarlo e interrogarlo. Nessuna accusa è mai stata mossa contro di lui " ha precisato Caradech. "Anche gli investigatori britannici volevano sentirlo, ma lui non ha mai voluto e non potevano costringerlo" ha continuato la stessa fonte. Una lettura confermata da Roche, in quanto "nessuno pensa che quest'uomo abbia avuto un ruolo nell'incidente, ma va piuttosto considerato come un testimone”.
Il copione della storia di quella fatidica sera ormai non si può riscrivere, ma per i due autori-investigatori quell’incidente drammatico è stato soltanto il risultato di “una serie di circostanze sfortunate. E' colpa della sfortuna". Il finale sarebbe stato diverso se Dodi Al-Fayed avesse seguito le istruzioni del padre, che aveva organizzato gli spostamenti della coppia al millimetro, facendo quindi tramontare le zone d’ombra legate al tragico fatto di cronaca."L'unica zona d'ombra che resta è intorno alla personalità di Diana, sempre misteriosa" ha concluso Roche.
A 25 anni dalla scomparsa, Lady D. è una figura sempre più iconica e inspiring per la televisione e il cinema, alimentata dal ricordo dei figli, della famiglia, dei suoi milioni di fan nel mondo e dalle interpretazioni magistrali di Kristen Stewart in “Spencer” di Pablo Larrain e di Emma Corrin nella serie The Crown. Ad occupare presto la scena sarà il prosieguo della serie dei reali prodotta da Netflix, che si concentrerà sul periodo attraversato dalla monarchia negli anni Novanta e, inevitabilmente, sulla tragica morte di Diana, che a questo giro avrà il volto di Elizabeth Debicki.
Lo scorso anno in Gran Bretagna Diana è stato il quarto nome più popolare per le bambine, ennesima riprova della popolarità senza tempo di colei che rimarrà per sempre la "Candle in the Wind", canzone intramontabile di Elton John originariamente dedicata a Marilyn Monroe poi riadattata per il funerale della 'principessa triste', celebrato il 6 settembre 1997.