AGI - Il Ciad si avvia verso la pacificazione? Questo è quello che si augurano le autorità ciadiane che hanno firmato, insieme a 42 fazioni ribelli su 47 del paese, un accordo in Qatar, per aprire un dialogo nazionale che dovrebbe iniziare il 20 agosto nella capitale N’Djamena.
Nell’accordo quadro, tuttavia, non sono compresi due dei principali gruppi ribelli.
Il Ciad, paese povero del Sahel senza sbocco sul mare, è governato da una giunta militare dalla morte, nell’aprile del 2021, del presidente Idriss Deby Into che lo ha guidato per 30 anni, ed è un alleato strategico degli occidentali nella lotta contro il terrorismo jihadista. Il timone del paese, ora, è nelle mani di Mahamat Idriss Deby Into, figlio del defunto Idriss, salito al potere con un colpo di stato “costituzionale”.
Deby figlio ha subito promesso elezioni libere e democratiche entro 18 mesi, dopo “un dialogo nazionale inclusivo” con l’opposizione politica, i numerosi gruppi ribelli, i sindacati e la società civile. Ora il paese è alla prova dei fatti, ma la mancata firma dei principali gruppi armati annacqua un po’ l’accordo e occorre capire se questi riprenderanno le armi o meno.
Uno di questi gruppi, il Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad (Fact), è additato come uno dei responsabili della morte del presidente Deby appena rieletto per un sesto mandato, che si trovava sul fronte nord del paese proprio per guidare l’offensiva contro i ribelli. Il leader di questo gruppo, Mahamat Mahdi Ali, infatti, non ha partecipato ai negoziati in Quatar preferendo rimanere nel deserto libico, ma dopo la firma ha diffuso un comunicato nel quale sostiene che la ragione della non firma dell’accordo è “concomitante alla mancata presa in considerazione delle nostre richieste”, come la liberazione dei prigionieri, ma dicendosi disponibile “per un dialogo ovunque e sempre”. Affermazioni contradditorie visto l’esito dell’accordo e, anche, perché il Fact non esclude la ripresa dei combattimenti contro il regime di N’Djamena.
L’accordo del Qatar, dunque, non risolve la questione dell’opposizione armata, proprio perché alcuni dei principali gruppi armati non lo hanno firmato, ma apre una fase che potrebbe portare alla pace e il dialogo che si svolgerà a N’Djamena potrebbe definire meglio gli obiettivi e il quadro generale, cioè il Ciad del futuro.
L’accordo, che dovrebbe spianare la strada al ritorno di un governo civile, è stato definito un “momento chiave per il popolo del Ciad” dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, il ciadiano Moussa Fali Mahamat ha voluto sottolineare che il dialogo e le discussioni hanno trasceso le divisioni che “sono diventate anacronistiche”.
Ai leader dei ribelli, che si recheranno a N’Djamena il 10 agosto, le autorità offrono un cessate il fuoco e garanzie di sicurezza. In quell’occasione dovranno decidere l’organizzazione delle elezioni presidenziali previste per ottobre, anche se il capo della giunta militare che guida il Paese, Mahamat Deby Into, pensa a un rinvio di 18 mesi.
La Francia, l’Unione africana e l’Unione europea, invece, spingono affinché la scadenza prevista non venga toccata. L’occidente, visto il clima “ostile” che aleggia un po’ su tutto il Sahel, non può perdere questo alleato che si è dimostrato solido nel tempo, e non possono permettersi che il Paese deragli e piombi in una spirale di violenza che aggraverebbe ulteriormente la crisi economica. Il Ciad è il terzo paese meno sviluppato al mondo e ha i più alti tassi di mortalità materna e un bambino su cinque muore prima dei cinque anni di età. E la pandemia da coronavirus ha esacerbato ulteriormente il tasso di povertà che ha superato il 50%.
Tutto ciò nonostante il paese sia un produttore di petrolio, anche se l’estrazione, nel 2021, è stata limitata a 47 milioni di barili, secondo l’Osservatorio delle finanze pubbliche in Ciad. Tra il 2014 e il 2016, il calo del prezzo del petrolio ha causato una crisi del debito e la quota detenuta dal gruppo svizzero Glencore è stata ristrutturata nel 2018. N’Djamena, ora sta negoziando la ristrutturazione del proprio debito nell’ambito dell’iniziativa di sospensione del servizio del debito del G20. L’economia del paese è quasi totalmente dipendente dal petrolio e i proventi che ne sono derivati sono stati, principalmente, investiti nella sicurezza e nella costruzione di un esercito tra i meglio organizzati di tutta la regione che ha portato il Ciad ad essere uno dei paesi più affidabili e strategici per l’Occidente.
Da anni il paese deve affrontare sfide militari su tutti i suoi confini. Nella regione del Lago Ciad l’esercito combatte, dal 2015, con la fazione del gruppo nigeriano di Boko Haram affiliata allo Stato Islamico. Le forze armate partecipano a una forza multinazionale mista, sostenuta dall’occidente, che riunisce Nigeria, Niger e Camerun, nonché la forza anti-jihadista dell’organizzazione G5 Sahel, che comprende Mauritania, Burkina Faso e Niger, non più il Mali che si è ritirato. Ma non solo. Lo staff francese dell’operazione anti-terrorismo che succederà a Barkhane continuerà ad avere come sede principale la capitale N’Djamena. E poi c’è tutto il confine con la Libia dove deve affrontare le incursioni dei ribelli.
Lo sforzo militare, però, è andato a scapito della popolazione. L’indice di sviluppo umano è pari a 0,328, molto basso, e colloca il paese al 183esimo posto al mondo, il Pil pro capite è 709 dollari, il tasso di analfabetismo è del 65%. La maggioranza dei 16 milioni di abitanti vie sotto la soglia di povertà. Poi ci sono i conflitti legati alla terra che contrappongono pastori e contadini, una guerra tra poveri. Le ragioni principali delle tensioni intercomunitarie sono l’accesso alle risorse economiche (49% dei casi), l’accesso alla terra (21%) e ai servizi (11%).
I negoziati che si apriranno il 20 agosto dovrebbero affrontare anche queste questioni, che sono vitali per la popolazione e sono il nodo dell’instabilità del paese che non può più reggersi intorno al solo petrolio e a un esercito forte.