AGI - Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali in Kenya del 9 agosto. La campagna elettorale si è svolta in un clima di apatia, di disillusione politica e, soprattutto, è stata segnata dalla crisi economica e dall’elevato costo della vita con un’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità, mettendo da parte il fattore etnico da sempre determinante nelle elezioni.
Quattro sono i candidati in corsa per la presidenza – in Kenya si voterà anche per le legislative - tra cui il vicepresidente William Ruto e Raila Odinga, ex leader dell’opposizione ora sostenuto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta. A contendersi la poltrona più alta del Paese anche gli avvocati David Mwaure e George Wajackoyah – una eccentrica ex spia che vuole legalizzare la cannabis – con pochissime chance di vittoria. Le elezioni si prospettano come un serrato duello da Ruto e Odinga. Chi vincerà? È difficile dirlo, sembra quasi essere un lancio di monetina, tutto si giocherà all’ultimo voto.
I due favoriti, i cui ritratti campeggiano su enormi cartelloni pubblicitari in tutto il paese, sono volti noti ai keniani. Odinga, 77 anni, è un veterano della lotta democratica, che ha vissuto il carcere prima di diventare primo ministro (2008-2013) e che si è candida alla presidenza per la quinta volta. Ruto, 55 anni, ha ricoperto la carica di vicepresidente per quasi un decennio ed è stato il delfino del presidente in carica Kenyatta che lo aveva designato come suo successore.
Ma le cose, poi, sono andate diversamente. Un’alleanza inaspettata tra Kenyatta e Odinga lo ha messo da parte già nel 2018. Con un capovolgimento della politica keniana, del resto molto versatile, Odinga è diventato il candidato del presidente uscente. Ruto, da membro del potere, si è trovato a sfidarlo. Comunque vadano le elezioni si aprirà una nuova pagina dopo oltre vent’anni di presidenze Kikuyu, la prima e molto influente etnia del paese. Odinga, infatti, è un Luo e Ruto un Kalenjin.
La politica keniana degli ultimi anni è stata segnata da manovre di palazzo che non hanno fatto altro che far crescere la disillusione della popolazione verso la politica. È cresciuta l’apatia soprattutto tra i giovani che hanno risposto con meno entusiasmo all’iscrizione nelle liste elettorale. I 22,1 milioni di elettori iscritti dovranno votare per il presidente, ma anche per i parlamentari, i governatori e per circa 1500 funzionari locali elettivi.
C’è disillusione e sono in molti coloro che pensano che la politica non risolverà i problemi della gente, chiunque verrà eletto farà le stesse cose del suo predecessore. E poi c’è un paese afflitto dalla corruzione che è diventata endemica. Odinga, nella sua campagna elettorale, ha proprio dato la priorità alla lotta a questo flagello, nominando come vicepresidente Martha Karua ex ministro ritenuta una donna inflessibile proprio sul tema della corruzione, e denunciando i procedimenti legali contro il compagno di corsa di Ruto, Rigathi Gachagua.
Lo sfidante di Odinga ha impostato tutta la campagna elettorale ergendosi a paladino del popolo, promettendo aiuti e lavoro quando tre keniani su dieci vivono con meno di 2 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale.
A tenere banco, però, in questa campagna elettorale, è stato il tema del potere di acquisto e la crescita drammatica dei prezzi dei generi di prima necessità. Un fattore destabilizzante per il Kenya, locomotiva economica dell’Africa orientale, scossa prima dalle conseguenze della pandemia da Covid, poi dalla guerra in Ucraina e da una grave siccità che non si vedeva da 40 anni. E a pagarne le conseguenze sono tutti, la gente che acquista sempre meno e i commercianti frustrati dall’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari. In questo contesto la questione economica potrebbe soppiantare il voto tribale, da sempre fattore chiave presente nelle cabine elettorali.
Nonostante ciò il Kenya è sempre stata una delle economie più dinamiche dell’Africa orientale e si è sempre preso cura della sua immagine di hub regionale. Il suo profilo è atipico in Africa: relativamente poche risorse naturali ma un notevole dinamismo economico, in particolare nel settore dei servizi. L’agricoltura è anche uno dei suoi pilastri (22% del Pil) e la principale fonte di esportazione (tè, caffè, fiori). Dopo un calo dello 0,3% correlato alla pandemia del 2020, l’economia del Kenya ha iniziato a riprendersi nel 2021.
Un altro fattore determinante è il turismo, grazie alla cinquantina tra parchi e riserve naturali e alle coste dalle acque cristalline dell’oceano Indiano, che hanno attratto, nel 2021, circa 1,5 milioni di visitatori e che sta crescendo nell’anno in corso. Ma i prezzi del carburante e del cibo sono aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi, in particolare quella della farina di mais – cibo base – alimentando così la frustrazione in un paese afflitto dalla corruzione endemica. Nel 2021 il Kenya è stato classificato al 128esimo posto su 180 paesi da Trasparency Internazional.
Le diseguaglianze, inoltre, sono evidenti in Kenya, dove i campi dal golf e gli slum possono essere adiacenti e dove il salario minimo mensile è di 15.120 scellini (124 euro). Secondo la ong Oxfam, il patrimonio dei due keniani più ricchi è maggiore del reddito combinato del 30% della popolazione, ovvero 16,5 milioni di persone.
La popolazione di circa 50 milioni di persone è per lo più giovane e cristiana. Degli oltre 40 gruppi etnici, i Kikuyu sono il gruppo più numeroso, davanti ai Luhya, ai Kalenjin e ai Luo. Il fattore etnico ha sempre giocato un ruolo fondamentale nelle elezioni, ma è anche stato un fattore destabilizzante. Sono trascorsi, infatti, quindici anni dalle violenze post-elettorali del 2007-2008 che hanno provocato più di 1100 morti, principalmente negli scontri da Kikuyu e Kalenjin. Una ferita mai rimarginata che pesa ancora oggi.
Nel 2017, la contestazione dei risultati elettorali da parte di Odinga ha provocato una severa repressione delle manifestazioni da parte della polizia che ha provocato decine di morti. I risultati elettorali, negli ultimi vent’anni, sono sempre stati contestati, anche davanti alla Corte Suprema nel 2013 e nel 2017, queste ultime presidenziali sono state annullate per “irregolarità”, una prima volta in Africa, e Kenyatta è stato eletto con un nuovo scrutinio.
Lo spettro di possibili violenze incombe anche su queste elezioni presidenziali. La Commissione nazionale per la coesione e l’integrità, un organismo di promozione della pace creato dopo le violenze del 2007-2008, ha stimato in un recente rapporto che la probabilità di violenze nel periodo elettorale è del 53%. L’augurio è che dentro le urne non prevalga il fattore etnico, ma la volontà di rendere stabile la democrazia in Kenya.