AGI - Kibera è uno slum di Nairobi, la capitale del Kenya. Tutto il degrado possibile lo puoi immaginare e sovrapporlo a questa baraccopoli. Poi se vai più a fondo, se percorri quelle stradine segnate da fogne a cielo aperto, da baracche in lamiera, ti accorgi che c’è un’umanità, seppur arrancando cerca ogni giorno ciò di cui vivere, ci sono i giovani, apparentemente privi di un futuro, che sognano possibilità di riscatto anche stravaganti.
In questo dedalo di baracche puoi pensare che il riscatto passi attraverso la scuola che ti porta, poi, a trovare un lavoro dignitoso. Certo è la via. Ma poi vedi, anche, che tra quelle baracche si sviluppa una fantasia inimmaginabile, almeno che non trova spazio tra le categorie che contraddistinguono la normalità della vita. Così capisci che le passioni dell’infanzia possono diventare un “lavoro”.
È la storia di Brian Diang’a. Da piccolo, per sfuggire da un universo familiare difficile nello slum più grande dell’Africa, ha trovato rifugio nei videogiochi e ora quella passione è diventata lavoro, motivo di guadagno. L’eSport è diventato la sua salvezza. Diang’a ha scoperto i videogiochi all’età di nove anni. “Mio padre era un alcolizzato, tornava a casa stordito dall’alcool e picchiava mia madre. La mia casa è diventata un posto dove non volevo stare”.
Ecco perché il suo rifugio sono diventate le sale giochi, col dispiacere di sua madre perché temeva che queste potessero avere una brutta influenza sul figlio, distraendolo dai suoi “doveri” scolastici. Ora, 28enne, ricorda che la madre lo picchiava ogni volta che lo trovava a “giocare”. Ma questa passione l’ha sviluppata partecipando ai tornei di eSport, di videogiochi, anziché precipitare nella droga e nella criminalità come è successo a migliaia di suoi coetanei che vivono negli slum di Nairobi. Ora guadagna circa 50mila scellini kenioti al mese, 400 euro, in un paese dove la disoccupazione giovanile resta uno dei problemi più gravi.
Così spiega la sua carriera. “Mi sono imbattuto in un video su YouTube in cui ho visto giocatori all’estero che giocavano a Mortal Kombat – un gioco a cui giocavo spesso per passare il tempo – e che sono stati pagati fino a 5mila dollari per partecipare”.
Così decide di fare la stessa cosa e ora, come altri “giocatori” keniani cerca di trovare un suo spazio negli eSport, che sono in piena espansione. Una scelta di vita assurda per il Kenya, dove il rendimento scolastico e le doti atletiche sono considerate le uniche strade per il successo.
Mentre studiava legge, Sylvia Gathonu, è diventata una pioniera degli eSport. Nel 2018, la giovane donna, che gioca al picchiaduro Tekken sotto il nome di “Queen Arrow”, è diventata la prima giocatrice keniana – maschio e femmina – ad essere reclutata da una squadra internazionale, la UYU, con sede negli Stati Uniti.
“La generazione più anziana – spiega – è stata formattata a pensare che per avere successo devi seguire un percorso specifico: andare a scuola, lavorare sodo negli studi e poi intraprendere una carriera”, e lei ne aveva la possibilità, invece ha scelto l’eSport. Ora viaggia in tutto il mondo per partecipare ai tornei internazionali. Tutto ciò accade nonostante non vi siano strutture adeguate.
Il settore del “gioco” deve misurarsi con grossi problemi in Africa, un continente che potrebbe comunque essere visto come un mercato vivace con il 60% della sua popolazione di età inferiore ai 25 anni. Molti giocatori devono misurarsi con connessioni internet lente e differenze di orario sfavorevoli rispetto alle loro controparti che vivono nei paesi sviluppati, dove si trova la stragrande maggioranza dei server. In Kenya, poi, anche i “giocatori” e le sale gioco sono soggetti a meticolosa sorveglianza da parte della polizia, perché la legge non distingue tra sport elettronici e gioco d’azzardo.
“Durante la mia ricerca – sottolinea la Gathoni – ho scoperto che la legge deve essere in linea con la tecnologia. Qui siamo ancora molto in ritardo”, per questo vuole specializzarsi nella legge sugli eSport, per rendere chiaro il quadro giuridico di questa attività che non ha nulla a che fare con il gioco d’azzardo.
Brian Diang’a, che ora fa da mentore ai giovani giocatori a Kibera e organizza tornei in tutto il Kenya, spera di vedere i videogiochi esplodere in Africa. “Il gioco – dice – mi ha tenuto sano di mente quando tutto stava andando in pezzi. Voglio vedere più persone entrare in questa cultura”.