AGI - Le mangrovie possono salvare il mondo. Messa così sembra una esagerazione, ma non proprio. Basta andare in Kenya, nell’estuario dove il fiume Sabaki incontra l’Oceano Indiano, in quella parte di paese che tutto il mondo conosce, Malindi, per le sue spiagge. Lì c’è ancora un albero solitario di mangrovie, un simbolo di ciò che hanno voluto dire decenni di sovrasfruttamento che hanno rotto un equilibrio naturale che durava da centinaia di anni.
Per generazioni le comunità locali hanno attinto alla ricchezza naturale offerta da fiume: legno, acqua dolce, terreni fertili da coltivare, piante per la medicina tradizionale. Questa zona costiera umida del Kenya, porta con sé molti vantaggi di fronte ai cambiamenti climatici: stoccaggio del carbonio, filtraggio dell’inquinamento idrico, protezione naturale contro gli eventi atmosferici estremi e l’innalzamento del livello del mare.
Anni di sfruttamento incontrollato hanno inflitto danni terribili alle mangrovie, distese fangose, pozze d’acqua dolce e dune di sabbia che punteggiano la foce del secondo fiume più lungo del Kenya. Le mangrovie – utilizzate in maniera sostenibile per secoli per costruire le tradizionali case swahili – sono state ampiamente usate per sostenere le città in rapida crescita come la vicina località turistica di Malindi. Detto questo si capisce perfettamente cosa significa dire che le mangrovie possono salvare il mondo. E, ormai, se ne sono accorti anche gli abitanti di quella regione del Kenya.
Sono molti i volontari che stanno piantando giovani alberi di mangrovie proprio dove le acque fangose del Sabaki incontrano le acque cristalline dell’Oceano Indiano. Ne hanno capito l’importanza e ora è urgente riforestare. Ne hanno piantate decine di migliaia. È uno sforzo comune dei volontari guidati da Francis Kagema, coordinatore regionale del gruppo di protezione ambientale Nature Kenya. “quando si tratta di mangrovie”, spiega Kagema, “la loro capacità di recuperare e ripopolare le loro aeree precedenti è piuttosto incoraggiante”.
A Dabaso, alla periferia delle zone turistiche più rinomate del Kenya, l’oasi naturalistica del Mida Creek è da anni messa in pericolo dalla civilizzazione. Le mangrovie, soprattutto, sono una protezione millenaria per l’ecosistema e oggi anche per i cambiamenti climatici e l’innalzamento dell’oceano. Joyce Muramba, 51 anni e madre di 7 figli, non ha studiato, parla esclusivamente kiswahili ma ha capito che le mangrovie sono l’unica grande risorsa della sua terra e della sua gente. Nonostante la vita le abbia anche dato dispiaceri, come una figlia disabile che ha bisogno di cure quotidiane e costose, la sua tempra e tenacia sono un esempio per la gente di Dabaso.
Piantare le mangrovie, curarle e proteggerle tradizionalmente è un lavoro prettamente maschile. Nel Mida Creek le donne si devono occupare d'altro: difficilmente le si vede sulle instabili piroghe ricavate dai tronchi degli alberi di bambakofi, non sono loro a districarsi negli stretti viottoli fangosi e nei canali che formano, per recuperare il benefico miele che le api vi producono e che costituisce il più antico commercio di queste zone, da oltre 250 anni. Oggi si va “per mangrovie” soprattutto per catturare i granchi e le ostriche che si nutrono del mondo vegetale prodotto da quel ecosistema e di cui i turisti sono ghiotti.
Joyce nel 1994 ha fondato un’associazione tutta al femminile, la Dabaso Upendo Women Group, per occuparsi di riforestazione e di conservazione. In pochi anni ha riunito altre comunità, anche le riottose associazioni maschili di pescatori e coltivatori, e ha creato una forza unica. Poi con il marito ha aperto un piccolo ristorante su palafitte che, con l’aiuto di donazioni locali e straniere, è diventato un punto di riferimento anche per turisti alternativi. Grazie ai proventi del ristorante ha avviato una serra per l’allevamento di granchi e ripopolato di ostriche la zona, dando lavoro a centinaia di pescatori che oggi possono avere introiti più sicuri e hanno capito il perché sia così importante l’ecosistema del Mida Creek.
Per la sua attività allo stesso tempo sociale e di tutela dell’ambiente, ha ricevuto nel 2019 il Premio “Conservazionista dell’Anno” da parte della KAWT (Kenya Association of Women in Tourism) e del Governo della Contea di Kilifi, Kenya.
Le mangrovie, dunque, sono estremamente preziose per il pianeta e per gli uomini e le donne che lo abitano. I loro alberi possono assorbire cinque volte più carbonio rispetto alle foreste terrestri e hanno la funzione di barriera contro tempeste ed erosione. Le mangrovie, oltre ai benefici ambientali, offrono anche vantaggi economici. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), un ettaro di mangrovie può fornire l’equivalente di 33mila-57mila dollari in servizi economici. A Sabaki, per esempio, le guide locali integrano le loro entrate portando visitatori e gruppi scolastici a osservare gli ippopotami e gli uccelli che popolano l’estuario. Sono, inoltre, in corso lavori per migliorare le strutture turistiche e sviluppare l’apicoltura tradizionale.
Poi c’è tutto il lavoro con i pescatori per convincerli ad abbandonare pratiche ittiche insostenibili e i ranger volontari che sorprendendo i taglialegna abusivi nell’estuario li gestiscono internamente, non vengono portati nelle centrali di polizia e, quindi, denunciati, ma svolgono un’opera di convincimento. Spiegano loro i benefici di lasciare le mangrovie dove sono, senza tagliarne gli alberi. Secondo Jared Bosire, project manager di un gruppo di conservazione dell’Oceano Indiano chiamato Convenzione Nairobi, la comunità Sabaki sta dimostrando che gli approcci locali alla protezione ambientale portano solo vantaggi “Speriamo che le buone pratiche possano essere applicate anche in altri contesti”, spiega Bosire. E non è solo una questione puramente ambientale. Perdere le mangrovie, per gli abitanti della costa, significa perdere la loro identità.