AGI - La salvezza per l’arcipelago di Lamu e la sua conservazione dipende dai turisti. La crisi pandemica ha bloccato il turismo in gran parte del mondo e anche in Kenya. Solo dal primo marzo si può viaggiare con una certa tranquillità, nonostante si debbano mantenere alcune precauzioni necessarie perché il contagio non riprenda.
Ma Lamu, un sito patrimonio dell’Unesco, potrebbe tornare al suo splendore. Forse. Proprio a nord dell’arcipelago è stato completato un porto commerciale che con la bellezza del luogo non ha nulla a che fare. Di sicuro potrà dare lavoro. Vedremo. Il rischio, tuttavia, di un declassamento da parte dell’Unesco è dietro l’angolo.
Il porto, costato 3 miliardi di dollari e costruito, manco a dirlo, dai cinesi della China Communication Construction Company, rientra negli sforzi del Kenya per diventare il principale centro di snodo commerciale dell’Africa occidentale, in grado di gestire grandi navi con una notevole capacità di trasporto. Il paese ha già un importante porto a Mombasa, nel sud del Kenya, ma l’obiettivo di quello di Lamu è integrare la parte settentrionale del paese nell’economia attraverso il progetto del corridoio Lapsset – Lamu Port-South Sudan-Ethiopia Transport – che costerà complessivamente 24 miliardi di dollari.
Un corridoio che dovrebbe portare l’Etiopia a sfruttare questo sbocco al mare – ora si avvale di Gibuti – e dirottare il petrolio del Sud Sudan, che attualmente viene pompato attraverso il Greater Nile Oil Pipeline fino a Port Sudan. Per riassumere: il porto collegherà i paesi interessati attraverso un gasdotto, una linea ferroviaria e una rete di strade. Insomma Lamu può perdere la sua natura di paradiso naturale e turistico.
Ripercussioni sull’economia, tuttavia, già si vedono. La pesca, che da generazioni sostiene l’arcipelago, è meno fiorente soprattutto da quando il cantiere Lapsset ha privato i pescatori locali di alcune zone di pesca. E a nulla sono valse le promesse di risarcimento da parte del presidente keniano Uhuru Kenyatta. A tutto ciò si aggiunge che l’arcipelago di Lamu è al confine con la Somalia. In quest’area si sono moltiplicati gli attacchi terroristici degli islamisti di Al Shabaab che controllano, ancora, buona parte della Somalia e hanno nel mirino, già dal 2014, il Kenya. L’insicurezza ha in parte prosciugato l’afflusso di turisti. La pandemia ha fatto il resto.
La mancanza di turisti ha in parte cambiato il volto anche del centro storico di Lamu. I giovani, in particolare, in assenza di altre possibilità di guadagno, hanno “importato” i moto taxi, da sempre vietati nell’arcipelago, diventando un motivo di divisione. Lamu, da secoli, vive al ritmo dei dhow – tipiche imbarcazioni – e degli asini. Questi ultimi, presenti a migliaia su questo pezzo di terra di meno di 80 chilometri quadrati, sono stati sempre l’unico mezzo di locomozione terrestre, trasporto di uomini, merci, pietre da taglio, coralli con i quali sono state costruiti i muri di tutte le case. Una città costruita dagli asini, diventati nel tempo animali “sacri” e fondamentali per la vita della popolazione. Tanto sono cari che in città è persino sorta una clinica a loro dedicata. E i moto taxi – i boda bodas in lunga swahili – hanno rotto l’armonia della città vecchia, non abituata ai rumori assordanti dei motori. Per questo sono stati banditi.
Molti residenti, così come gli albergatori, ritengono che questi “mezzi di trasporto” deturpino l’identità dell’isola e che potrebbero costare, addirittura, il declassamento come patrimonio dell’Unesco.
Fino a dieci anni fa a Lamu c’erano solo due veicoli: una moto per l’azienda elettrica, e il fuoristrada del “commissario distrettuale”. Ed è proprio la tranquillità derivante dall’assenza di veicoli a motore che ha attirato turisti da tutto il mondo in questo pezzo di paradiso con più 700 anni di storia, il cui centro storico, con le sue case coralline e le sue porte di legno intagliato è stato, appunto, dichiarato patrimonio dell’umanità nel 2001. Lamu è stato crocevia commerciale di bantu, arabi, persiani, indiani ed europei, ed è il più antico e meglio conservato insediamento swahili dell’Africa orientale e un importante centro di cultura islamica. Insomma un crogiolo multiculturale come pochi se ne vedono in Africa.
Nel periodo pandemico i giovani, non avendo più fonti di guadagno, si sono ingegnati autisti di moto taxi con i quali riescono a incassare fino a 10 euro al giorno. Al divieto di circolazione dei boda bodas si sono ribellati proprio loro, ma non sono rigidi. Spiegano: “Se lo Stato, se la contea di Lamu può creare posti di lavoro sostenibili per i giovani, noi interromperemo la nostra attività di boda bodas”.
Ma questo non sembra essere all’orizzonte. Per l’Unesco, tuttavia, la minaccia più grave per Lamu non è rappresentata dai moto taxi. Secondo Karalyn Monteil, esperto del programma culturale dell’Unesco, “di pericoli ce ne sono tanti, i boda bodas sono uno di questi, ma non il principale. Il pericolo maggiore è la gestione complessiva del sito: il mantenimento del patrimonio, l’impatto di Lapsser, la crescita dell’urbanizzazione, i rifiuti nelle strade. Il Kenya deve agire rapidamente”. E poi ci sono gli asini, vero motore economico dell’arcipelago.
Ora c’è da chiedersi se, in un ambiente in parte degradato, Lamu potrà tornare a essere una meta turistica. Il vicino porto, forse, non lo consentirà. Diventerà un polo economico, ma scomparirà un patrimonio inestimabile dell’umanità. Che fine faranno gli asini che hanno fatto la fortuna dell’arcipelago? Non si vedranno più i dhow solcare l’oceano Indiano, ma solo petroliere e navi porta container.