AGI - In appena dodici giorni l'invasione russa dell'Ucraina ha innescato nelle relazioni internazionali un terremoto con pochi precedenti. Si è ricompattata quella Nato che, secondo il presidente francese, Emmanuel Macron, era in uno stato di "morte cerebrale". La Germania si sta riarmando, rompendo un tabù culturale che risale alla disfatta nazista. L'Iran si ritrova le condizioni di Mosca, e non più quelle di Washington, come ostacolo principale al ripristino dell'accordo sul programma nucleare.
E il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si vede costretto a scendere a patti con Venezuela e Arabia Saudita, nazioni non proprio amiche, per cautelarsi dalle conseguenze di un blocco delle importazioni di petrolio russo, una forma di sanzione che rimane sul tavolo, sebbene incontri ancora la ferma opposizione di Berlino.
Lo scorso fine settimana, ha riferito il New York Times, emissari della Casa Bianca e del dipartimento di Stato si sono recati a Caracas per discutere una ripresa delle esportazioni di greggio verso gli Usa con funzionari del governo di Nicolas Maduro. Un governo che sulla carta gli Stati Uniti nemmeno ritengono tale, riconoscendo come legittimo presidente il capo dell'opposizione, Juan Guaidò. Nondimeno nell'amministrazione Biden sono in molti a ritenere che sia il greggio della repubblica bolivariana, che siede sulle riserve più ingenti del mondo, a poter sostituire quello acquistato dalla Russia, pari al 3,5% delle importazioni petrolifere Usa.
Quanto pesa per Washington il greggio di Mosca
Si tratta di una percentuale che sembra limitata ma, come sempre, il diavolo sta nei dettagli. Nel 2021 gli Stati Uniti hanno importato dalla Russia 209 mila barili di petrolio al giorno, il massimo da almeno vent'anni. Questi barili sono stati per lo più diretti alle raffinerie del Golfo del Messico, che hanno bisogno di un 'cuscinetto' quando gli uragani colpiscono le rotte di approvvigionamento tradizionali.
C'è poi il caso delle Hawaii, isolate dal continente, che contano sulla Russia per una quota del loro fabbisogno petrolifero che, a seconda dell'anno, va dal 10% al 25%. Per gli altri americani, già inquieti per l'inflazione alle stelle, uno stop all'oro nero del Cremlino si tradurrebbe in un rincaro dei prezzi alla pompa comunque sufficiente per punire Biden alle prossime elezioni di medio termine.
Per gli abitanti dello Stato insulare sarebbe invece un'autentica catastrofe. Va poi preso in considerazione l'impatto sul mercato della benzina. Sulla carta, secondo i dati dell'Energy Information Administration, la Russia esporta in Usa 500 mila barili al giorno di prodotti petroliferi e il greggio russo rappresenta appena l'1% del totale raffinato dagli stabilimenti americani.
Il mercato della benzina è però molto complesso da monitorare e i quantitativi acquistati dalle compagnie private sono un altro paio di maniche. L'Eia non li calcola perché, spiega, "non è in grado di identificare quali società vendano benzina importata o benzina raffinata da greggio importato".
Ci sono i dati sulle importazioni petrolifere delle compagnie ma è impossibile stabilire quanto della benzina che ne viene ottenuta finisca poi effettivamente nelle auto degli americani. Forbes ha provato a fare i conti sulla base dei dati del Census Bureau e ha stabilito che nel 2021 addirittura il 21% della benzina esportata negli Stati Uniti proveniva dalla Russia. Questa cifra non trova riscontro in altre analisi ma proprio la difficoltà nell'elaborare stime complessive mostra quanto sanzionare il settore energetico russo significherebbe muoversi in terra incognita.
Se un blocco limitato al mondo angloamericano avrebbe già un impatto dirompente sui mercati globali, una stretta estesa all'Unione Europea sarebbe un autentico Armageddon. Biden, che si starà pentendo dello stop alla Keystone XL Pipeline con il Canada almeno quanto i tedeschi si saranno pentiti dello stop al nucleare, dovrebbe necessariamente distogliere dal mercato interno parte della produzione domestica per salvare dal collasso gli alleati del vecchio continente.
Entra quindi in gioco quello che è forse l'unico produttore al mondo in grado di aumentare le forniture in misura sufficiente ad attutire uno shock sistemico: l'Arabia Saudita (ci sarebbe anche l'Iran, al momento sotto embargo, per ribadire quanto la guerra in Ucraina abbia reso vitale chiudere presto e bene la partita del nucleare persiano).
Lo strappo di Biden sulla storica alleanza con Riad
Axios ha rivelato che gli uomini del presidente stanno discutendo una missione a Riad in primavera per tentare di ricucire i rapporti e convincere i sauditi a pompare più greggio. Dal punto di vista diplomatico, la situazione è rovesciata rispetto al Venezuela.
Washington e Caracas avevano rotto le relazioni diplomatiche nel 2019 in seguito alle dure sanzioni al settore petrolifero inflitte dall'amministrazione Trump. Biden ha affermato che non intende ritirarle finché Maduro non terrà libere elezioni ma ha comunque rinunciato al cambio di regime che il suo successore aveva perseguito.
Se l'incontro dello scorso weekend, riferisce Reuters, si è concluso senza intese, l'approccio più morbido di Biden ha quantomeno consentito di riallacciare i contatti. Altra storia le relazioni con la petromonarchia araba, rinsaldate da Donald Trump nell'ottica di esercitare la massima pressione possibile sull'Iran.
Biden, al contrario, aveva definito il Paese un "paria" in campagna elettorale e, poco dopo l'insediamento, aveva ritirato l'appoggio all'offensiva saudita in Yemen contro i ribelli Huthi e desecretato i rapporti della Cia secondo i quali il principe ereditario Mohamed bin Salman aveva approvato l'assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, massacrato nel consolato di Riad a Istanbul il 2 ottobre 2018. Quanto 'MbS' se la sia legata al dito, è evidente da una recente intervista al 'The Atlantic' in cui il principe invita Biden a "non dargli lezioni". La Casa Bianca per ora non conferma che un incontro tra i due leader sia allo studio. Ma la guerra, come la politica, crea strani compagni di letto.