AGI - “I problemi potrebbero nascere qualora, per errore o per fatalità, ordigni dovessero colpire l’impianto ricoverato sotto il cosiddetto New Safe Confinement, la struttura di protezione che è stata installata alla fine del 2016 a protezione dell’ambiente e per ovviare alla fragilità del vecchio Sarcofago situato più sotto, costruito in fretta e in furia per chiudere l’impianto disastrato al fine di contenerne le fughe radioattive. Nel sarcofago, sono ancora presenti le quasi duecento tonnellate di combustibile fuso mescolato a parti di reattore, al piombo, alla sabbia: la cosiddetta “lava” radioattiva (corium) che si è depositata sotto il corpo del reattore, solidificandosi”.
A parlare è Emilio Santoro, fisico nucleare, già dirigente di ricerca e direttore responsabile del reattore nucleare di ricerca da 1 MW del Centro ricerche della Casaccia. Il tema è la centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, sede nel 1986 del più grande disastro dell’era nucleare, passata nei giorni scorsi sotto il controllo russo. Le notizie arrivate da lì negli ultimi giorni raccontano di un innalzamento della radioattività nell’area.
“Ma questo – spiega Santoro all’AGI - non ha molto a che vedere direttamente con la centrale. Il disturbo della superficie di terreno a opera di mezzi militari pesanti nelle aree adiacenti all’impianto, dove presumibilmente è ancora presente una certa distribuzione di contaminazione, può effettivamente aver riportato in aria una certa concentrazione di radionuclidi. Si tratta però di una situazione assolutamente locale e non eccessivamente drammatica”.
Aggiunge il fisco: “Che la reazione possa invece accendersi di nuovo a causa di deflagrazioni è da ritenersi molto poco probabile: occorrerebbe raggiungere condizioni abbastanza particolari per giustificarne la possibilità. La dispersione di materiale in aria sarebbe invece plausibile”.
Santoro ricorda come l’Ucraina sia una nazione che dipende fortemente dall’energia nucleare, dato che questa fonte copre oggi più della metà dell’intera produzione elettrica del paese; un paese che ospita, in quattro siti gestiti dalla Ergoatom, quindici reattori della filiera VVER, di progettazione russa. “Il VVER è una tipologia di reattore moderato e raffreddato ad acqua e la si potrebbe accostare a quella dei reattori pressurizzati di matrice occidentale. È inserito in un contenitore d’acciaio massiccio e l’edificio di contenimento è in grado di resistere a pressioni di oltre 12 Megapascal, più di 120 atmosfere, se vogliamo utilizzare unità desuete ma per qualcuno forse più familiari. Nulla a che vedere con la fragilità ingegneristica a vari livelli della filiera RBMK, quella cui apparteneva il reattore di Chernobyl. Gli edifici di contenimento dovrebbero inoltre resistere anche all’impatto con un aereo di linea. Quanto alle assicurazioni del CEO dell’Ergoatom, secondo il protocollo, in caso di un bombardamento gli impianti nucleari verrebbero spenti e scaricati fino a quando la minaccia non venga eliminata”.
Preoccupazioni dunque eccessive? Un inasprimento dello scontro militare sul campo non rischia di compromettere la tenuta degli impianti nucleari? Parlando di Chernobyl, Santoro precisa: “È oltremodo difficile pensare che possano riprodursi le condizioni registrate nel 1986 con l’evento transfrontaliero che portò una nube radioattiva ad attraversare buona parte dell’Europa. Quell’evento si verificò principalmente a causa del cosiddetto “effetto camino”, un forte surriscaldamento prodotto nel tempo dal bruciamento del reattore (soprattutto per la presenza della grafite) che creò una forte bassa pressione locale tale da facilitare la risalita in atmosfera della colonna di fumi radioattivi che entrarono in circolo atmosferico, in quei giorni non favorevole al territorio europeo. Una enorme colonna di fumo caldo ad altissima densità di radionuclidi radioattivi, soprattutto di quelli più volatili. Sono trascorsi quasi quarant’anni da quei giorni. Si è esaurita già una emivita (tempo di dimezzamento della radioattività) per quei prodotti che decadono con un tempo confrontabile. Anche il calore di una o più eventuali (e sempre malaugurate!) esplosioni non potrà provocare un effetto camino come quello che si registrò nel 1986. E, come allora, i prodotti più “pesanti” (uranio, plutonio, ecc…), non così facilmente percorrerebbero lunghe traiettorie”.
In definitiva, per Santoro, qualora dovesse presentarsi una sciagurata ipotesi di attacco all’impianto con effetti anche seri, l’evento dovrebbe avere "la dimensione di un’area abbastanza limitata".