AGI - Il ritiro, minacciato, è diventato realtà. La Francia e l’occidente hanno deciso di lasciare il Mali. Dopo nove anni di intervento militare contro il terrorismo jihadista, Parigi ha deciso di “abbandonare” il paese. Una resa inevitabile per il progressivo esacerbarsi dei rapporti con la giunta golpista di Bamako, il cui culmine è stata la cacciata dell’ambasciatore francese dalla capitale maliana.
La decisione arriva, inoltre, in un momento delicato per il presidente francese Emmanuel Macron, che dovrebbe annunciare la sua candidatura per un secondo mandato. Arriva in un momento di crescenti tensioni anti-francesi in tutta l’area del Sahel che sono state la spinta – anche se non la decisiva – per un cambio di regime in Mali e anche nel vicino Burkina Faso. Bamako, da tempo, ha chiamato i mercenari russi della Wagner, che già operano sul terreno, per proseguire la lotta al terrorismo.
Una decisione che ha irritato i francesi e tutto l’occidente impegnato nel paese anche se sempre negata dal Cremlino. Sono circa 25mila gli uomini dispiegati nel Sahel, di cui circa 4300 francesi – 2400 in Mali nell’ambito dell’operazione anti-jihadista Barkhane. Un ritiro, si sono affrettati a sottolineare l’Eliseo e i partner europei, che non significa abbandonare il Sahel, ma sicuramente Parigi e l’Unione Europea dovranno reinventare il partenariato con i paesi saheliani.
Ciò non significherà spostare altrove ciò che fino a ora è stato fatto in Mali, ma rafforzare la presenza in Niger e sul versante meridionale. E tutto ciò dovrà essere coordinato con la missione delle Nazioni Unite. Un ritiro, inoltre, che solleva molti dubbi sul futuro proprio della missione Onu che conta 15 mila uomini, creata nel 2013 per sostenere il processo politico maliano. La fine dell’operazione Berkhane (francese) e Takuba (forze speciali dell’Unione europea) potrebbe portare al ritiro anche dei contingenti di Germania e Inghilterra impegnati nella forza Onu.
Il Sahel, tuttavia, rimane una priorità e una regione strategica per l’intera Unione europea, proprio per gli enormi investimenti sul piano militare e su quelli della cooperazione – anche se meno – più squisitamente economica. Intervento militare che, in nove anni, non ha portato a significativi successi nella lotta al terrorismo, per certi versi è stata disastrosa.
La realtà dei fatti: la debolezza dei governi, l’insicurezza e il disastro umanitario sono peggiorati nell’ultimo anno e le prospettive di pace duratura rimangono deboli. La regione ha subito colpi di Stato militari – Mali e Burkina Faso – e “costituzionali” – Ciad – oltre all’avanzare, sempre più insidioso, del terrorismo jihadista. Se si guarda alle morti violente, queste sono cresciute del 20% nel 2021 rispetto all’anno precedente, nonostante le imponenti missioni militari, francese e europea – che operano sul campo. Le Nazioni Unite, inoltre, hanno stimato che almeno 36 milioni di saheliani sono sull’orlo dell’insicurezza alimentare.
Il teatro saheliano è estremamente complesso anche sul piano geopolitico internazionale. Il ritiro della missione francese Barkhane e la “sindrome Afghanistan”, stanno lasciando spazio, dal punto di vista militare, ad altre potenze internazionali. La Francia, in un primo momento ha ridimensionato il suo contingente, e ora lo ha ritirato dal Mali, facendo affidamento sulla forza europea tentando, in questo modo, di rassicurare che ciò non corrisponde alla fine dell’impegno francese nel Sahel.
Nella regione, tuttavia, sta montando un forte sentimento anti-francese e, pure, anti-occidentale. Parigi ha faticato, negli ultimi mesi, a giustificare il mantenimento della missione di fronte alla sua opinione pubblica, l’ex ministro della Difesa Hervé Morin, nel governo dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, non ha usato mezze parole, anzi è stato netto: “Abbiamo uno scenario che si avvicina ogni giorno di più a quello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo arrivati per combattere il terrorismo e ricostruire uno stato (si riferisce la Mali, ndr.) su un accordo politico e sembriamo sempre più una forza di occupazione”. E l’ex ministro ha aggiunto che la Francia non è “riuscita nel suo obiettivo bellico” e quindi “non può rimanere in Mali contro il parere delle autorità locali”. Stessa sorte è capitata all’operazione Takuba. Con il ritiro dal Mali l’attenzione si concentrerà sul Niger, dove l’Italia ha una presenza significativa.
Bamako, subito dopo il colpo di stato, non sapendo bene cosa fare e per scongiurare “l’effetto Afghanistan”, è “volata”, a Mosca, invitandola, quasi supplicandola, ad aiutare il suo paese a garantire sicurezza e a difenderne l’unità, l’integrità e la sovranità. La risposta del Cremlino non si è fatta attendere ed è arrivata per bocca del ministro degli Esteri, Sergey Lavrov: “Il mio Paese farà tutto il possibile per evitare che la minaccia terroristica gravi sulla struttura dello Stato del Mali”. E sul terreno maliano sono già arrivati i mercenari della famigerata Wagner, che per conto della Russia fanno il lavoro sporco sul campo, anche se tutti negano.
Anche il Ciad, che possiede l’esercito più armato ed efficiente dell’area, ha deciso di dimezzare il suo contingente nell’ambito dell’operazione G5 Sahel, in particolare nella zona delle tre frontiere – Mali, Niger, Burkina Faso – passando da 1200 a 600 effettivi. Il portavoce del governo ciadiano ha spiegato così la decisione: “La scelta di alleggerire il dispositivo è stata concertata con il comando del G5. In rapporto alla situazione che c’è sul campo è necessario avere una forza mobile più capace di adattarsi alle modalità di azione attuate dai terroristi. Rimane intatta la nostra volontà di far fronte ai jihadisti”. Un incubo per molti paesi, in particolare per il Burkina Faso e il Mali che non riescono a far fronte e nemmeno ad arginare la minaccia terroristica che ha paralizzato la vita di intere comunità minacciate e tenute in ostaggio dai jihadisti. Un fattore degno di nota, inoltre, è il fatto che i golpisti dei due paesi saheliani, appena preso il potere hanno subito rivolto il loro sguardo al Cremlino, innescando una crisi diplomatica proprio con il principale interlocutore occidentale dell’area, Parigi.
Insomma l’occidente lascia il Mali e apre, anzi spalanca le porte alla Russia. È innegabile che la decisione di Macron e dei leader occidentali di “abbandonare” Bamako, è una vittoria per Putin. In poco meno di un anno si è “preso” – o la Francia l’ha perso – mezzo impero francofono: Mali, Burkina Faso e Repubblica Centrafricana.
E poi c’è la Cina che è stata invocata a gran voce dal Burkina Faso, chiedendo il sostegno di Pechino nella lotta contro il terrorismo, accogliendo l’impegno e le assicurazioni della sua controparte cinese per accelerare la spedizione di attrezzature militari promesse al Paese.
Richiesta rafforzata anche dal capo della diplomazia senegalese, la ministra Aissata Tall Sall, durante l’ultimo vertice Cina-Africa - che si è svolto a Dakar nel novembre dello scorso anno. Nel documento finale del summit si è messa nero su bianco la “cooperazione nell’ambito della sicurezza”, vista come un “punto focale” delle relazioni sino-africane. Sono state annunciate, e questa è una novità, esercitazioni congiunte per operazioni di mantenimento della pace, nella lotta al terrorismo, al traffico di stupefacenti e alla pirateria. Pechino mette gli scarponi sul terreno. E proprio ieri il direttore generale della polizia del Mali, Soulimane Traoré, ha ricevuto l’ambasciatore cinese, Chen Zhihong. Il diplomatico ha ribadito che la Cina si impegnerà “nel rafforzare gli equipaggiamenti delle forze di sicurezza del Mali nel quadro di una cooperazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa”.
L’asse che si è creato tra Cina e Russia sul fronte della crisi ucraina, si potrebbe ripresentare anche in Africa, in particolare in quella parte di Sahel abbandonato dall’Occidente. Entrambi i paesi potrebbero avere vantaggi da questo legame. La Russia ha poco da offrire sul piano economico, ma molto su quello militare, la Cina è una presenza consolidata, ma sempre attenta a non interferire negli affari interni dei paesi dove fa affari. La sinergia Pechino-Mosca potrebbe avere vantaggi per entrambi. Di sicuro, nonostante il ritiro occidentale, l’incubo Afghanistan è stato spazzato via e nel Sahel si parla sempre di più russo e mandarino.