AGI - In un clima di incertezza politica e di crescenti minacce alle libertà la Tunisia ha celebrato l'11esimo anniversario della rivoluzione popolare che mise fine al regime di Zine el-Abidine Ben Ali, durato oltre 20 anni. La ricorrenza odierna fa riferimento al fatto di cronaca che segnò l'inizio dell'insurrezione: nel dicembre del 2010 nella città economicamente depressa di Sidi Bouzid (centro) un venditore ambulante di 26 anni, Mohamed Bouazizi si immolò col fuoco, diventando un martire.
Il suo fu un gesto disperato in reazione al sequestro della sua merce, unica fonte di sostentamento, da parte della polizia e diventò il simbolo del profondo malessere sociale della stragrande maggioranza dei tunisini. La sua morte scatenò un'ondata di protesta ai quattro angoli del Paese durata quattro settimane, con i cittadini che manifestarono per denunciare corruzione, repressione della polizia, mancanza di libertà e disoccupazione per lo più giovanile.
Le proteste furono portate avanti nonostante la repressione della polizia e amplificate da uno sciopero generale e costrinsero alla fuga del dittatore Ben Ali - al potere dal 1987 - verso l'Arabia Saudita il 14 gennaio 2011. Il presidente della Camera dei deputati Fouad Mebaza venne allora nominato presidente della Repubblica ad interim e il premier uscente Mohammed Ghannouchi costituì un nuovo governo, ma la presenza di otto ministri del partito del dittatore destituito fu contestato dall'opposizione e le proteste continuarono.
La pressione popolare e sindacale portò alla nomina di un nuovo esecutivo diretto da Beji Caid Essebi e progressivamente, tra marzo ed aprile 2011, si delineò il processo di transizione pilotato dall'Alta istanza per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione. Negli scontri della rivoluzione chiamata "dei gelsomini" - i tunisini preferiscono l'espressione "della dignità" - almeno 338 persone sono rimaste uccise e 2.174 ferite.
Sulla scia della rivoluzione in Tunisia, altri movimenti popolari insurrezionali si manifestarono in Egitto, Libia, Siria, Yemen e Barhein, noti come primavere arabe. A distanza da 11 anni, l'altalenante percorso democratico avviato in Tunisia attraversa un momento di particolare difficoltà per la grave crisi politica nazionale scaturita da alcune decisioni prese dal controverso presidente Kais Saied e dagli ultimi sviluppi istituzionali.
Lo scorso 11 ottobre un nuovo governo ha prestato giuramento, diretto per la prima volta nella storia del Paese da una donna, Najla Bouden Romdhane. La sua nomina ha posto fine a mesi di potere vacante alla Kasbah, dopo la destituzione lo scorso 25 luglio del suo predecessore, Hichem Mechichi. Lo scorso 22 settembre, Saied ha firmato un decreto di emergenza che gli permette di governare per decreto, ignorando i limiti imposti dall'attuale Costituzione e senza dover passare per il Parlamento.
All'inizio di questa settimana il presidente tunisino ha prorogato la sospensione del Parlamento - i cui lavori sono bloccati dalla scorsa estate - annunciando che nel 2022 si terranno un referendum per votare una nuova Costituzione (il 25 luglio) e le elezioni per rinnovare l'attuale Parlamento, il 17 dicembre.
Per i suoi oppositori, continua il "colpo di stato" del presidente Saied. Secondo diverse analisi concordanti, quella in corso in Tunisia è una contro-transizione democratica voluta e attuata dal capo dello Stato che si oppone apertamente a tutte le decisioni prese a partire dalla rivoluzione: Costituzione, modalità di votazione e tipo di regime politico. Per Saied la democrazia costruita durante la transizione sarebbe falsificata, motivo per cui lui intende fondare quella vera.
E per farlo sta prendendo una serie di decisioni fortemente simboliche, a cominciare dalla scelta delle date, specchio della sua visione politica della Tunisia di oggi e di domani. Non a caso il presidente ha formalmente deciso che la rivoluzione del 2010-2011 sarà commemorata il 17 dicembre e non più il 14 gennaio, giorno della caduta del regime di Ben Ali.
Per Mahdi Elleuch, analista giuridico e politico, ricercatore dell'Ong Legal Agenda Tunis, il presidente Saied intende riscrivere la storia - scegliendo come scadenze future date altamente simboliche - in quanto per lui il 14 gennaio e la successiva transizione democratica non sono altro che la confisca della rivoluzione, mentre per lui la rivoluzione autentica è il 17 dicembre.
Secondo Saied la volontà popolare è stata dirottata dall'èlite con le sue rivendicazioni politiche e le sue priorità, motivo per cui al centro del suo progetto politico la costruzione democratica deve ripartire dalla base, mettendo l'accento sulle piccole località, sulla dimensione regionale della rivoluzione.
Ma la sua linea autoritaria sta alimentando sempre più dissensi all'interno della classe politica e nella società, con molti cittadini che lo criticano per l'assenza di un programma economico e sociale, per le minacce ad alcune libertà, in una Tunisia ancora alle prese con gli stessi problemi all'origine della rivolta del 2010-2011, ovvero povertà e disoccupazione.
Tra i suoi ultimi provvedimenti particolarmente controversi e contestati dalla popolazione c'è l'abrogazione della legge 38 che obbligava lo Stato a fare un contratto di lavoro nella funzione pubblica a 10 mila diplomati disoccupati da almeno 10 anni. I tunisini deplorano le tante altre promesse mancate da parte di chi sta al potere come la realizzazione di numerosi progetti infrastrutturali - ospedali, strade - e la creazione di posti di lavoro nel settore minerario e della pubblica amministrazione, a maggior ragione nelle regioni economicamente depresse e remote della Tunisia.
Emblematico delle mancate promesse socio-economiche e dell'impasse politica è il Museo della Rivoluzione: la sua costruzione è stata annunciata nel 2015, ma oggi a Sidi Bouzid, dietro la grande porta metallica c'è un terreno vuoto e i lavori da 4 milioni di dinari non hanno ancora preso il via per onorare la memoria di un popolo che ha cambiato la sua storia a livello nazionale.