AGI - Luuk van Middelaar è uno storico e politologo olandese, specialista dell’Europa e dell’Ue di cui conosce i meccanismi anche dall’interno per essere stato consigliere del primo presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, fra il 2010 e il 2014, in piena crisi finanziaria e del debito. Il suo libro 'The Passage to Europe, How a continent became an union', scritto nel 2009, è stato tradotto in 12 lingue ma mai in italiano.
In un’intervista all’Agi, mentre sta presentando l’appena pubblicato Pandemonium, Saving Europe, sulla risposta europea alla crisi del Covid, Van Middelaar parla dell’ennesima crisi che l’Europa sta affrontando, quella sulla disputa con la Polonia, che arriva al termine di un decennio molto complicato.
L’Europa ha affrontato molte crisi negli ultimi 10 anni. Come ne è uscita?
“In ognuna delle crisi che l’Unione ha affrontato negli ultimi anni qualcuno ha sempre previsto la fine dell’Europa, entrando anche nei dettagli su quando precisamente sarebbe accaduto. E’ successo con la crisi della Grecia, con quella dei migranti e con la Brexit. L’Europa è sempre sopravvissuta, e ora per quanto riguarda il futuro è importante interrogarsi sul perché l’Europa riesca sempre a sorprendere se stessa: non conosce le forze di cui dispone, ma rispetto a 10 anni fa dispone di strumenti migliori, è meglio attrezzata per far fronte al pericolo. La prova è avvenuta con la pandemia: se per trovare una soluzione alla crisi greca, a suo tempo, ci sono voluti due anni e mezzo, per arrivare all’intervento concreto di Bruxelles su vaccini e fondi ottenuti con il debito comune sono bastati pochi mesi”
La pandemia ha inizialmente messo ulteriormente alla prova la tenuta dell’Unione. Poi le soluzioni si sono trovate. Pensa che questo sia sufficiente a salvaguardare il futuro dell’Ue?
“La pandemia è stata una prova importante, vista l’ampiezza della sofferenza e il fatto che si trattava di una crisi concreta, non astratta come quella delle banche e dei mercati o lontana come quella dei rifugiati. Stavolta, era qualcosa che toccava direttamente ognuno di noi, i nostri cari e i nostri amici. La richiesta di aiuto è partita innanzitutto dall’Italia, un vero e proprio grido all’inizio della diffusione del virus: abbiamo vissuto il momento amaro della mancanza di solidarietà e della chiusura, ma poi c’è stata la risposta, piuttosto notevole e arrivata molto prima rispetto alle crisi precedenti: da un lato il fondo di rilancio (recovery fund), dall’altro l’acquisto dei vaccini delegato all’Unione europea".
"La lezione è che come in altre crisi il grande shock inatteso della pandemia ha creato lo spazio per la riflessione e la risposta comune. Il grido della gente, lo spazio pubblico che ha conquistato, ha avuto ragione di tutte le resistenze e l’azione politica è seguita. Anche se come tutto al mondo l’Europa è mortale e continuerà sempre ad esserci chi predice la fine dell’Europa, bisogna sempre tenere presenti queste forze invisibili che ci tengono insieme e si mobilitano in caso di pericolo. Il “pandemonium”, come lo chiamo nel libro, è qualcosa di molto vivo e affascinante, pieno di passione, e se anche non corrisponde all’invenzione dei padri fondatori, è comunque positivo per il futuro dell’Europa”.
Quanto pensa sia grave la crisi di queste settimane sullo stato di diritto in Polonia e quanto concreto il rischio di una Polexit?
“Non credo che la Polonia voglia uscire dall’Ue, ma il rischio non è inesistente. C’è un forte sostegno popolare dei polacchi all’appartenenza all’Ue, oltre l’80%. Il rischio è però che il dibattito sia mal gestito dagli altri Paesi Ue e dalle istituzioni di Bruxelles. C’è qualche segnale preoccupante di questo, confermato anche nell’ultimo vertice, quando invece di parlare del pericolo che la Polonia diventi uno Stato autocratico si è discusso solo della supremazia della legge europea su quelle nazionali: non dobbiamo cadere nella trappola di Varsavia. Il problema è che il governo polacco si muove contro la propria costituzione e in questa ottica va vista la sua battaglia contro il diritto europeo".
"Quello sulla Corte di Giustizia è un dibattito marginale rispetto al rischio, molto più grave, che la Polonia diventi uno Stato autocratico. In pericolo sono la libertà dei giudici e quella dell’informazione, e il governo si muove contro la sua stessa costituzione. Se si cade nella trappola di discutere, anziché delle azioni di un governo liberticida, del rischio per la sovranità nazionale, allora anche in patria il premier riesce ad avere un sostegno patriottico, conquistando consensi anche grazie ai media che sono tutti dalla sua parte. Bisogna dunque fare attenzione di tenere gli occhi puntati sulla questione essenziale: Polonia e Ungheria rischiano di trasformarsi in autocrazie, in ‘democrazie illiberali’ in barba alle rispettive costituzioni”.
Che cosa può fare l’Europa per affrontare questi rischi?
“Il fatto che si parli di stato di diritto a livello di capi di Stato e di governo è una novità positiva: ora il tema non interesa più solo la Corte di giustizia, ma le stesse opinioni pubbliche. Credo che a questo punto, un po’ di pressione politica e finanziaria non faranno male. E poi la nostra famiglia europea dovrebbe tornare a concentrarsi sulle cose che la tengono unita, anziché sulle questioni su cui non c’è consenso: e quindi, quale valore più condiviso della democrazia?”.
Si parla molto della creazione di una vera Difesa europea, non da contrapporre ma da affiancare alla Nato: che cosa ne pensa?
“I cambiamenti geopolitici ci obbligano a prepararci ad essere autonomi nella nostra difesa contro i pericoli. E’ evidente che ci troviamo fra due grandi forze: la Cina da una parte e gli Usa, che non si interessano più a noi. E’ una tendenza cominciata da una decina di anni, e ora si è resa palese con il cosiddetto patto Aukus. Quanto accade con i due blocchi contrapposti è per l’Europa più grave in questo caso che ai tempi della prima guerra fredda, quando eravamo proprio noi, l’Europa, la posta in gioco fra Usa e Unione Sovietica"
"Oggi invece, con gli Usa condividiamo ancora i valori ma non più gli interessi, o per lo meno non tutti: pensiamo ad esempio all’immigrazione dall’Africa e dal Medio Oriente. A Joe Biden non interessano i rifugiati afghani e iraniani che arrivano in Europa: non è un suo problema. Nelle relazioni transaatlantiche si tende a discutere dei valori che ci uniscono, ma molti sono gli interessi che ci dividono. Ed ecco che per la prima volta il concetto di autonomia strategica viene messo nero su bianco, non più solo dal punto di vista militare ma secondo una prospettiva più ampia. Si pensa alla salute, all’industria, ai semiconduttori. E su tutti questi punti ne’ la Cina ne’ gli Stati Uniti sono disposti a difendere l’Europa o altri: difendono se stessi. Non si tratta più di essere a favore di un blocco o dell’altro come durante la prima guerra fredda, ma di difenderci contro i pericoli. E non credo che ci siano molti europei disposti a morire per Taiwan, purtroppo”.
Nei prossimi giorni a Roma l’Italia ospita il G20: alla luce di quanto abbiamo detto finora, pensa che il ruolo dell’Unione europea ne possa risultare sminuito?
“Il prossimo G20 è un forum molto importante per l’Ue. L’Unione vi è rappresentata assieme a tre dei suoi Stati Membri, fra i quali ovviamente l’Italia. La voce europea vi è quindi forte, pur inserita in un contesto mondiale. Gli incontri internazionali di questo tipo devono accelerare la riflessione su quello che ci unisce in quanto Europei e su come organizzarci nel mondo, a partire dal nostro posto fra Stati Uniti e Cina. Quando il presidente Mario Draghi riceve in questo fine settimana il presidente Usa Biden e il presidente Xi (che in realtà non sarà presente ma rappresentato dal ministro degli Esteri, ndr), lo fa sicuramente in nome dell’Italia, ma allo stesso tempo in nome dell’Europa. In questo triangolo Europa-America-Cina si gioca il nostro futuro”.