AGI - Angela Merkel al supermercato in piena pandemia da coronavirus, con la carta bancomat in mano e due rotoli di carta igienica nel carrellino. Oppure Angela Merkel che a Ischia bussa alla porta di casa (“senza farsi annunciare”) del ‘maitre’ dell’albergo frequentato in tante vacanze passate sull’isola quando viene a sapere che costui ha perso il lavoro.
Ma anche: Angela Merkel che spiega con la pazienza della scienziata la dinamica esatta della crescita esponenziale dei contagi se non verranno prese delle contromisure (il video sarà virale), Angela Merkel che chiede scusa ai tedeschi, con le lacrime agli occhi, perché lo Stato non aveva risposto con sufficiente forza alla pandemia e Angela Merkel che, unica leader al mondo, ammette che “avevamo tutti valutato male la situazione” in Afghanistan.
E poi, Angela Merkel che scandisce “wir schaffen das” (ce la facciamo) quando oltre un milione di migranti varca i confini tedeschi, inaugurando così la “politica delle porte aperte”, Angela Merkel che tiene il ritratto di Caterina la Grande sulla propria scrivania.
Infine, da non dimenticare: la giovane Angela Merkel che il 9 novembre 1989 preferisce andare alla sauna invece che vedere le folle che attraversano increduli i varchi del Muro di Berlino, appena precipitato sotto il peso del Novecento. La lunga traversata merkeliana – sedici anni ininterrotti alla guida del più grande e ricco Paese europeo – è fatta di immagini straordinarie, e straordinariamente emblematiche, più di quanto non accada con altri protagonisti della politica mondiale.
Le domande sul futuro
Il prossimo 26 settembre, qualunque sia l’esito delle elezioni tedesche, rappresenta la fine di un’era: la conclusione del suo quarto mandato da cancelliera (il primo iniziò nel 2005 dopo una sorprendente vittoria nei confronti del socialdemocratico Gerhard Schroeder), non solo è destinata a cambiare radicalmente il panorama politico della Germania (e, di conseguenze, a modificare gli equilibri europei), ma rappresenta anche il momento della verità di quella che la rivista Forbes ha definito “la donna più potente del mondo”.
Ossia: cosa resterà del fenomeno Merkel? Quale è la visione del mondo, della politica, della Germania, della società, che la cancelliera venuta dall’est lascerà nel solco della storia? Cosa rimarrà? La “Krisenkanzlerin” capace di navigare con mano sicura nelle tante crisi che hanno caratterizzato questi sedici anni (l’eurocrisi, l’Ucraina, la crisi dei migranti, le tensioni con la Russia, la pandemia, ora l’Afghanistan)?
L’incredibile capacità di mediazione nelle infinite trattative nei vertici, nelle riunioni di partito, con i governatori dei Laender? Oppure la sistematica attitudine post-ideologica a derubare i propri concorrenti politici (i socialdemocratici e i Verdi) dei loro temi e dei loro cavalli di battaglia, con l’effetto di svuotare l’identità della propria appartenenza politica, ossia l’unione conservatrice Cdu/Csu?
O magari la sacerdotessa dell’austerity che sulla via della pandemia viene folgorata dal Recovery fund volto a salvare i Paesi più colpiti dal Covid in nome del grande costrutto europeo?
L’“icona-Merkel”, caratterizzata dalla classica posa delle mani “a triangolo rovesciato” (oggi imitata dal suo possibile successore socialdemocratico, Olaf Scholz) e dall’invenzione del verbo “merkeln” (in italiano sarebbe “merkelare”), accolto in tutti i dizionari di lingua tedesca? Sono domande-tormentone che ciclicamente vengono ripetute ai quattro angoli del globo senza che si trovi una soddisfacente risposta.
Il percorso di Angela
Eppure, alla fine – pur in tutto questo profluvio di immagini – poco si sa della “persona” Angela Merkel. Perché è a suo modo straordinario che il destino tutt’altro che lineare dell’Europa sia determinato dalla donna che passa alla storia come Merkel, ma che in realtà si chiama Kasner e che cominciò la salita verso il potere sulle macerie del Muro, ma che preferì frequentare la sauna piuttosto che vederlo crollare.
La verità è che la storia dell’attuale cancelliera sin dai primi vagiti inizia contromano: nata il 17 luglio 1954 ad Amburgo, quando ha appena qualche settimana di vita, suo padre, un pastore protestante di nome Horst Kasner, fa il percorso inverso a quello che compiuto da milioni di tedeschi dell’est che preferiscono rifugiarsi all’ovest piuttosto che rimanere impigliate nel grigiore del socialismo reale, e trascina tutta la famiglia a vivere nella Ddr.
E qui, nella “Repubblica dei lavoratori e dei contadini” e della Stasi, che Angela cresce, frequenta con successo le scuole pubbliche, impara il russo, s’iscrive alla Freie Deutsche Jugend (l’associazione giovanile del partito unico di Honecker), scrive le obbligatorie tesine sul marxismo-leninismo, studia la fisica fino ad assumere un incarico di ricerca presso l’Accademia delle Scienze di Berlino.
È qui che sposerà Ulrich Merkel, che lascerà dopo meno di tre anni, ma il cui cognome manterrà per sempre (e sul perché vi sono solo illazioni). Da tutti punti di vista un percorso di crescita fuori dal comune: la famiglia del ‘pastore rosso’ Horst Kasner (il papà di Angela non era proprio considerato un fervido oppositore del regime) godeva di alcuni privilegi non esattamente comuni nella Ddr, a cominciare da una libertà di movimento dentro e fuori il Paese fino ad arrivare al fatto che la figlia maggiore ebbe la possibilità di scegliersi gli studi.
Ma il passaggio forse più straordinario è il fulmineo passaggio della scienziata Angela alla politica, i cui gradini scalerà a una rapidità mozzafiato: mentre è certo che non partecipò a nessuna delle manifestazioni che a Berlino e Dresda contribuirono in quell’incredibile 1989 a trascinare giù il Muro, poco dopo il suo crollo si ritrovò ad assumere l’incarico di vice-portavoce del governo di Lothar de Maiziere, il primo (e l’ultimo) esecutivo frutto di libere elezioni nella Ddr.
L'ascesa politica
Neanche undici mesi dopo la caduta del Muro, a riunificazione avvenuta, Merkel si ritrova ministra del primo governo della Germania riunificata. Il cancelliere Helmut Kohl l’aveva prescelta: “la ragazza”, la chiamava. Era perfetta dal punto di vista di chi voleva dare il senso dei grandi rivolgimenti che stavano cambiando la Germania: era donna, era giovane, veniva dall’est.
Non poteva immaginare, il renano Kohl, che un giorno proprio lei avrebbe dato la spinta necessaria alla sua caduta per prenderne il posto alla guida della Cdu: lui era stato già colpito dallo scandalo dei fondi neri al partito, ma fui lei a dare la “pugnalata di Bruto” con un articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, in cui scriveva che “il partito deve imparare a correre da solo”. Angela Merkel non si è mai fermata.
Dopo aver guidato l’opposizione durante il governo Schroeder, riuscirà a scalzare il socialdemocratico nel 2005: l’errore, tante volte ripetuto da altri protagonisti della politica, era stato quello di sottovalutarla, questa donna dall’aria apparentemente dimessa, dai discorsi un po’ noiosi, lontana da ogni appariscenza del potere, che abita al quarto piano di una casa alle spalle del Pergamon, dove – lo ha raccontato lei – cucina la ministra di patate e i dolci per il marito, il professor Joachim Sauer.
L’hanno sottovalutata gli avversari, ma anche gli alleati, come i vari leader cristiano-sociali che si sono succeduti negli anni, da Edmund Stoiber a Horst Seehofer, come l’eterno rivale-sodale interno alla Cdu, l’ex ministro alle Finanze Wolfgang Schaeuble, tutti prima o poi scornati dinnanzi alla impenetrabile capacità di resistenza della cancelliera.
E ovviamente hanno avuto pane per i loro denti anche i grandi leader globali. Leggendari i duelli (preferibilmente condotti in lingua russa) con Vladimir Putin, una specie di match in cui ognuno conosce i trucchi, i tic e le furbizie dell’altro, con Merkel che implacabilmente risponde con la pazienza e la forza dei numeri al potente zar russo. Oppure il braccio di ferro ininterrotto con Donald Trump, immortalato in una foto scattata al G7 del 2018, con la cancelliera circondata da tutti gli altri leader globali e protesa in modo quasi provocatorio verso il presidente americano.
Una carriera lunghissima
Un classico giochino che si fa su tutti i giornali è il conteggio del passaggio degli altri capi di governo o di Stato durante i quattro mandati Merkel: tra gli altri, quattro presidenti Usa, tre presidenti della Commissione Ue e ovviamente un’infinità di premier italiani. Tutto questo ai tedeschi piace moltissimo. Pur con alcuni saliscendi, la popolarità della cancelliera è stata sempre straordinariamente alta, soprattutto in confronto con quelli di altri leader tedeschi e mondiali.
E questo nonostante le sue famose “fughe in avanti” e le sue leggendarie svolte, che non hanno mancato di spiazzare l’elettorato, ma soprattutto il suo stesso partito: l’uscita dal nucleare dopo il disastro di Fukushima, il recovery fund da 750 miliardi di euro lanciato per salvare l’Europa sfigurata dal Covid dopo un decennio e mezzo di ostilità agli eurobond e di austerity, l’apertura ai migranti del 2015.
Per quanto controverse, sono anche queste scelte – imposte con tenacia – ad aver nel tempo rafforzato la sua immagine di leader mondiale credibile e solido, di elemento di stabilità anche quando si trova al centro di un vortice globale in cui tutti i vecchi parametri sembrano polverizzati da dinamiche sconosciute o inimmaginabili in questa portata solo pochi anni fa, dai furori populisti alle nuove forme autoritarismo che corrono dalla Russia di Putin al Brasile di Bolsonaro, giù giù fino alla pandemia del Covid.
Nel suo caso, un fenomeno di riaggiustamento delle icone, secondo il quale da uggiosa prima della classe dell’austerity l’ex ragazza dell’est ha finito per guadagnarsi l’appellativo di “ultima leader del mondo libero” (copyright Timothy Garton Ash).
Lei, ovvio, ci mette del suo: è quella che in 24 ore percorre in lungo e largo decine di migliaia di chilometri nel tentativo di arginare la crisi ucraina dopo l’annessione della Crimea, è colei che ribadirà in tutte le salse i principi del multilateralismo sia a Trump che a Xi Jinping, è lei che corre ad accordarsi con Emmanuel Macron sul Recovery fund nella convinzione che sia una condizione necessaria per rifondare la coesione europea.
Cosa succede ora
Il rovescio della medaglia è che oggi per la Germania l’infinito addio merkeliano rischia di essere dolorosissimo, soprattutto per la “sua” Cdu/Csu. I sondaggisti l’hanno calcolata, l’entità del ‘bonus Merkel’ venuto meno: nel maggio 2020 il blocco conservatore aveva toccato addirittura il 40% dei consensi, quasi ai livelli del risultato-boom del 2013, quando Merkel sfiorò la maggioranza assoluta e Berlino era sovrastata da un manifesto gigantesco fatto da un mosaico di migliaia di foto dei volti degli elettori a formare le mani della stessa cancelliera nella classica posa a triangolo rovesciato, mentre lo slogan recitava: “La Germania è in buone mani”.
Ebbene, oggi, a urne già riscaldate, la Cdu/Csu di Armin Laschet è sprofondata sotto il 20%. Paradossalmente è anche colpa della cancelliera, accusata di aver svuotato l’identità del partito che fu di Adenauer e dei suoi cugini bavaresi.
Ma non è solo questo: il giorno dopo che l’uomo candidato a succederle era stato pizzicato dalle telecamere a farsi grasse risate nella Renania sconvolta dalle inondazioni, Merkel camminava nelle zone del disastro con volto impietrito dal dolore e mano nella mano con la governatrice (socialdemocratica) Malu Dreyer. Un’altra immagine della lunga traversata merkeliana che pesa, che si fa storia, che mancherà.