AGI - Via entro il 31 agosto. Joe Biden ha deciso, inutili le pressioni degli alleati. Si apre un nuovo capitolo dopo un'occupazione durata vent'anni. L'Afghanistan non è più strategico per gli Stati Uniti (sostiene il presidente), ma basta chiedere a qualsiasi generale che abbia varcato l'ingresso del Pentagono e la risposta sarà opposta.
È andata così, le stellette dicevano no, il comandante in capo ha deciso per il sì. Le conseguenze non sono solo quelle immediate - il caos all'aeroporto di Kabul e il dramma dei rifugiati - perché si sono messe in moto nuove forze della geopolitica. Cosa sta succedendo? Tutto è in cronaca, come sempre.
Partiamo da un commento del generale John Allen sul Financial Times: "Con il ritiro, l'America ha perso quasi tutta la sua influenza come principale player nell'Asia centrale", osserva Allen, presidente di Brookings Institution, uno dei più influenti think tank americani.
Allen ha l'esperienza sul campo, sa di cosa parla, fu comandante delle forze Nato e statunitensi in Afghanistan. "Sebbene la decisione del ritiro sia corretta, la storia sarà dura nel giudicare il modo in cui lo abbiamo fatto. Molto di questo giudizio dipenderà da come saranno affrontate le evacuazioni a Kabul.
Tuttavia - avverte Allen - deve rapidamente seguire un cruciale dibattito sulla politica, se gli Stati Uniti vogliono giocare un ruolo significativo nel futuro dell'Afghanistan e preservare una qualche parvenza d'interesse di sicurezza nazionale nella regione".
Se c'è chi esce, c'è chi entra. I vuoti in politica si riempiono sempre. A cosa bisogna guardare per capire cosa sta succedendo in Afghanistan? Ai talebani, naturalmente. La forma del nascente governo, come osserva Allen, "sarà uno dei più importanti sviluppi di geopolitica del 2021" perché le loro decisioni impatteranno sugli equilibri nella regione e in tutto il Medio Oriente che resta una polveriera. Tutto è in rapido movimento. E brucia.
Guardiamo sempre alla cronaca. Non si fermano gli scontri sulla Striscia di Gaza (flash: sabato manifestazione al confine con 41 feriti, lunedì roghi appiccati nei centri israeliani, risposta dello Stato ebraico e una vittima, un adolescente palestinese).
Il 22 agosto l'Egitto ha richiuso il valico di Rafah, l'unico contatto di Gaza con il mondo esterno non controllato da Israele. Andiamo a Nord, stesso film, siamo in Libano, al confine con Israele, lancio di razzi da una parte e dall'altra. Solo quattro giorni fa, secondo i media del regime siriano, i caccia di Israele avrebbero operato dallo spazio aereo di Beirut, che ha presentato una formale denuncia all'Onu.
Sull'escalation al confine con Israele, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, durante il lungo discorso in tv in occasione del "quindicesimo anniversario della vittoria divina sul nemico sionista", ha detto che qualsiasi attacco avrà "una risposta appropriata e proporzionata", aggiungendo un preventivo "non vogliamo la guerra. Ma non ne abbiamo paura. Siamo preparati e l'aspettiamo ogni giorno, la vinceremo con l'aiuto di Dio".
Per il generale di divisione Stefano Del Col, al comando della missione Unifil - la forza d'interposizione delle Nazioni Unite sulla Linea Blu, di cui fanno parte un migliaio di militari italiani - Libano e Israele non cercano il conflitto ma la regione resta una santabarbara.
Altro elemento in pagina, il petrolio iraniano che naviga verso il Libano. Hezbollah fa l'annuncio con in mente il tentativo guadagnare consenso popolare nel paese che affronta la più grave crisi finanziaria e umanitaria della sua storia, ma c'è altro. Cosa? La ripresa dell'export di petrolio da Teheran verso Kabul (su richiesta dei talebani) che conferma una nuova fase nelle relazioni tra i due volti dell'Islam (quello sunnita e sciita), avviata con l'incontro tra l'allora ministro degli Esteri iraniano Mohammed Javad Zarif e il capo dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, lo scorso 31 gennaio. Dialogo suggellato dalle dichiarazioni di vicinanza fatte dal presidente Ebrahim Raisi nei confronti dell'Afghanistan con cui l'Iran condivide un confine lungo quasi mille chilometri.
Tutti questi elementi in cronaca hanno una conseguenza: il disimpegno statunitense rafforza i nemici di Israele, a partire da Teheran, nonostante le difficoltà economiche e le pressioni degli Stati Uniti nel mezzo delle trattative (in stallo) per il ritorno di Washington nel Jcpoa, l'accordo nucleare.
Con i negoziati sull'uranio fermi e gli americani impantanati nella crisi in Afghanistan, Israele teme che l'Iran continui a sviluppare il programma atomico, senza alcuna pressione da parte degli Stati Uniti e dell'Europa. Tutti sono molto distratti. Una preoccupazione che il premier israeliano Naftali Bennett esporrà a Biden quando lo incontrerà domani alla Casa Bianca. Bennett - che oggi vedrà il segretario di Stato Antony Blinken e il capo del Pentagono, Lloyd Austin - pur con l'intenzione di marcare una differenza rispetto al predecessore Benjamin Netanyahu, accusato di aver consentito a Teheran di avvicinarsi come non mai alla bomba atomica, nonostante la dura retorica anti ayatollah, sarà netto: "Dirò al presidente Biden che è arrivato il momento di fermare gli iraniani, di non dare loro linfa vitale rientrando nell'accordo nucleare, che nonè più rilevante, anche in base agli standard di coloro che prima lo giudicavano tale", anticipa il capo dello Stato ebraico.
Cosa manca nel nostro sfoglio? La pagina di Pechino. Tutti hanno fatto notare che in Afghanistan la Cina punta a colmare il vuoto lasciato da Washington. C'è l'asse con Mosca, c'è il Pakistan, ci sono interessi economici, la Nuova Via della Seta. Eppure tutto questo potrebbe non bastare al Celeste Impero perché l'Afghanistan per la Cina è un'opportunità, ma anche un pericolo.
A Pechino non amano l'instabilità - perfino con Taiwan per ora la situazione è in standby - dunque ecco la Cina chiedere agli Stati Uniti un impegno (che non potranno più mantenere) per la sicurezza nel Paese che stanno lasciando.
Perché Pechino si preoccupa? La chiave è in una striscia di terra condivisa proprio con l'Afghanistan, il "Corridoio di Wakhan", lunga circa trecento chilometri e larga sessanta, che si snoda lungo la catena montuosa del Pamir. Nella parte orientale di questa striscia di terra, l'ormai caduto governo di Kabul aveva avviato la costruzione la scorsa primavera di una strada per collegare l'Afghanistan alla regione cinese dello Xinjiang. La terra degli Uiguri. Che sono musulmani e sono una preoccupazione di Pechino, accusata di non rispettare i diritti umani nella regione ("internamento di massa, tortura e persecuzione", secondo i report di Amnesty International).
Ancora una volta, la parola chiave è "stabilità". Dove non arrivano più gli americani (ricordiamo che l'incontro di lunedì scorso tra il capo della Cia, William Burns, e Ghani Baradar non ha cambiato di una virgola la posizione talebana sulla data del ritiro) dunque si attivano i cinesi: il Quotidiano del Popolo informa che l'ambasciatore cinese in Afghanistan, Wang Yu, ha incontrato ieri una delegazione di talebani.
Siamo dentro una sceneggiatura circolare: dove c'erano i marines e sventolava la bandiera a stelle e strisce, arriva la diplomazia di Pechino, cioè l'avversario numero uno degli Stati Uniti, la minaccia che gli americani intendono fronteggiare meglio proprio lasciando l'Afghanistan. È la strategia del paradosso, è iniziato un nuovo Grande Gioco.