Ieri l’Iraq, oggi l’Afghanistan. L’Occidente si ritira al termine di un intervento malcalcolato, le frange più pericolose del jihadismo radicale hanno spazi immensi per dilagare, e ora il terrore della piccola comunità cristiana è proprio quello: fare la fine dei cristiani iracheni. O di quelli siriani: la differenza non è molta.
Il ritiro del soldati americani, la caduta di Kabul e l’ascesa al potere dei talebani in Afghanistan “a molti iracheni ha ricordato la drammatica sorte di Mosul nell’estate del 2014”, con la conquista della metropoli del nord da parte dello Stato islamico. È quanto racconta ad AsiaNews don Paolo Thabit Mekko, finora responsabile della comunità cristiana a Karamles, nella piana di Ninive, nominato la scorsa settimana durante il sinodo caldeo a vescovo coadiutore di Alqosh (Kurdistan irakeno). “All’epoca - sottolinea il sacerdote, per anni attivo nella cura pastorale dei profughi cristiani, musulmani e yazidi in fuga dai jihadisti - le truppe irakene si sono ritirate e Daesh ha fatto incetta delle armi abbandonate, conquistando il controllo del territorio”.
La fuga disperata dall'Afghanistan
L’attenzione della comunità internazionale, di ong e gruppi attivisti è concentrata in queste ore sulla sorte della popolazione afgana, soprattutto le donne, che rischiano una drammatica repressione sotto il dominio dei talebani. In molti cercano una fuga disperata e quanti sono rimasti temono di subire la rappresaglia degli studenti coranici, fautori di un “emirato islamico” in cui alle donne sono riconosciuti dei “diritti” secondo i “dettami della sharia, la legge islamica”.
Quanto sta avvenendo in questi giorni a Kabul ricorda da vicino le drammatiche vicende di Mosul, della piana di Ninive e del nord dell’Iraq nell’estate di sette anni fa, quando i miliziani del “califfo” al-Baghdadi hanno assunto il controllo dell’area. Nel periodo di massima espansione, i jihadisti hanno dominato con il sangue e il terrore su metà dell’Iraq e della vicina Siria. Il timore di molti è che, in caso di partenza della coalizione internazionale (e delle truppe statunitensi in particolare) l’esercito regolare finisca per squagliarsi e il Paese cadere nelle mani dei movimenti fondamentalisti tuttora attivi e responsabili di attacchi contro i civili.
“Nell’ultimo periodo in Iraq - prosegue don Paolo - circolano voci relative a un possibile ritiro dei soldati americani. Sono notizie che alimentano timori e preoccupazione, perché in caso di una loro partenza repentina succederà la stessa cosa avvenuta in Afghanistan”. La situazione oggi “non è tranquilla” e “ogni tanto si registrano attacchi contro città e obiettivi sensibili” comprese le stesse basi Usa presenti sul territorio. “Sono - aggiunge - opera dell’Isis o di quanti [come milizie o gruppi paramilitari] sono interessati a creare o fomentare confusione”.
Il timore per la visione del mondo dei talebani
Si teme in modo particolare “la mentalità che governerà Kabul”, quella visione del mondo dei talebani che è “in tutto simile a quella dell’Isis, un dominio del buio e delle tenebre”. Certo, aggiunge il sacerdote, “l’Iraq di oggi non è l’Afghanistan, ma è chiaro che una partenza della coalizione renderà sempre più forte la presa di questi gruppi sul Paese”. Intanto l’opinione pubblica e gli utenti dei social puntano il dito contro quella che definiscono “infedeltà americana” e la politica di una nazione “che fa e disfa, per poi lasciarsi alle spalle confusione”. In questo quadro di “incertezza”, conclude, “il passaggio chiave è rappresentato dalle prossime elezioni di ottobre, peraltro ancora oggi in bilico e con il rischio che possano essere cancellate”.
C’è poi un ultimo volto da non dimenticare, probabilmente il più indifeso: quello dei cristiani nascosti. Famiglie afghane che per lunga tradizione o per esperienze particolari si sono convertite al crisrtianesimo, ma vivono la propria fede nel segreto perché il pericolo è troppo grande. Su AsiaNews qualche giorno fa raccontava la loro storia Ali Ehsani, esule afghano in Italia, anche lui cristiano, autore del libro “Stanotte guardiamo le stelle”. Ehsani ha denunciato: «Le violenze contro di loro sono già iniziate. Il padre di una famiglia con cui sono in contatto è scomparso». Si sta lavorando per farli entrare tra le persone da accogliere in Italia con i corridoi umanitari. Per non lasciarli soli.
Lo spettro è quello dell’esodo forzato, se non delle persecuzioni in senso più stretto. In Siria, dove qualcosa di simile è già avvenuto, gli effetti sono stati dirompenti. Circa i due terzi del totale della popolazione cristiana ha abbandonato il pese nell’ultimo decennio, dall’inizio del sanguinoso conflitto nella primavera del 2011. È quanto denuncia la Assyrian Democratic Organization (Ado), fazione legata all’amministrazione autonoma curda nel nord-est della Siria (Rojava), secondo cui si è passati dall’8-10% di prima della guerra civile a un dato odierno attorno al 3%.
La diminuzione della popolazione cristiana
La diminuzione della popolazione cristiana – scrive AsiaNews – è evidente a cominciare dalle aree a maggioranza curda, come la regione di Jazira nel nord-est, dove il numero di cristiani è crollato da 150mila a soli 55mila. Il calo riguarderebbe anche le aree sotto il controllo governativo dove le difficoltà economiche, la mancanza di risorse, l’impoverimento generale dovuto alle sanzioni e la pandemia di Covid-19 hanno alimentato l’esodo.
Una fonte istituzionale cattolica, dietro anonimato, riferisce che «non vi sono statistiche precise» sul numero dei cristiani che hanno lasciato la nazione.
Tuttavia si può affermare senza alcun dubbio che la loro presenza «è diminuita tanto durante questi 10 anni di guerra». Diversi vescovi, parroci e pastori, seppur in via informale, «hanno notato questo calo soprattutto fra i giovani» e «nel caso in cui Europa e Canada apriranno le porte dell’immigrazione, tanti siriani, soprattutto cristiani, andranno via».
Delle difficoltà della popolazione cristiana, in particolare quella giovanile, aveva parlato di recente in una “Lettera agli amici” padre Ibrahim Alsabagh, guardiano e sacerdote della parrocchia latina di Aleppo. Per il 50enne religioso francescano «sono molti i problemi che bloccano la possibile ripresa della Siria» e che favoriscono il continuo esodo. Per il futuro, avverte, la «priorità dell’azione pastorale è rivolta ai giovani e alle coppie» che intendono unirsi in matrimonio, in una fase storica in cui «sposarsi è un atto eroico di fede».
Sul piano politico, invece, iniziano ad emergere iniziative fra le varie fazioni cristiane improntate all’unità e alla collaborazione, unica via per poter acquisire maggior peso economico, sociale e istituzionale.
L’Assyrian Democratic Organization (Ado) e il Syriac Union Party (Sup) hanno confermato di aver avviato colloqui e trattative fra le parti, nel tentativo di «rafforzare la loro influenza nel Paese».
Henna Sewime, dirigente del Sup, ha dichiarato al sito curdo Rudaw che i colloqui sono incentrati attorno a tre punti fondamentali: l’unità dei cristiani, l’unità della Siria e il riconoscimento dei cristiani nella futura Costituzione.
In altre parole, le precondizioni indispensabili per la sopravvivenza.