AGI - Le illusioni sono evaporate dopo soli sette mesi di Casa Bianca a guida democratica. Joe Biden ieri ha rivelato i suoi reali obiettivi: "America First". Il discorso del Presidente degli Stati Uniti è una cesura netta, ha l'impatto di un trauma. È una rottura clamorosa con il passato lontano e recentissimo (ieri) perché Biden ha consegnato alle pagine di storia uno discorso isolazionista, che ignora l’Europa (mai citata), il sacrificio sul terreno dei paesi che aderiscono alla Nato (mai citata), un intervento duro, glaciale, ripiegato sull’esclusivo interesse americano, con la negazione netta dei principi del "nation building", la contraddizione plateale di quello che è stato affermato in tutti i documenti dell'Alleanza Atlantica. Tutti.
Per chi scrive questo ripiegamento democratico non è una sorpresa, era solo una questione di tempo. "America First" non è mai stato un'esclusiva di Donald Trump (George Washington nel suo famoso discorso d'addio del 1796 spiegò quale doveva essere l'impegno dell'America con le altre nazioni: "La grande regola di condotta nei confronti delle nazioni straniere per noi è estendere le nostre relazioni commerciali, avere con loro il minor legame politico possibile"), non c'era nessun tasto reset da premere per tornare indietro al tempo di una immaginaria "Pax Universalis", vi sono alcuni fatti consolidati nella geopolitica del presente: il "serve and volley" delle nazioni in uno scenario accelerato e compresso, con soggetti interdipendenti e in forte competizione; una crescente divergenza tra i sistemi liberali (sempre più deboli e frenati dalle procedure democratiche) e autocrazie come Cina, Russia e Turchia (più rapide e efficienti nelle decisioni); l'autonomia energetica americana che ha già cambiato il perimetro dell'interesse nazionale sorvegliato da Washington; la Cina che non vuole per niente convergere con l'Occidente, ma cerca la via per sostituirlo con un nuovo ordine - lo afferma tutti i giorni - che non apre i mercati, ma li chiude con il rubinetto di una silente economia autarchica, il controllo delle materie prime strategiche dell'economia 2.0, la stretta sul settore hi-tech e la penetrazione all'estero con il cavallo di troia della Belt and Road; la globalizzazione che non è mai una partita "win-win", ma un mondo di vincenti e perdenti, con squilibri crescenti anche all'interno delle stesse nazioni che ne beneficiano (tra il 2000 e il 2016 gli Stati Uniti hanno perso cinque milioni di posti nella manifattura); la guerra che si è digitalizzata e in buona parte spostata nel cyber-spazio dove la supremazia dei satelliti americani è contenuta e le connessioni rendono gli armamenti più vulnerabili (Nadia Schadlow, in un articolo su Foreign Affairs dell'autunno del 2020, ricordava la frase di un alto ufficiale dell'Air Force sul cacciabombardiere F-35 JSF: "Un computer che per caso vola"), le contraddizioni delle multinazionali che si muovono in una dimensione "no border", ma in un periodo storico che torna a erigere, muri, fortezze, confini. Sopra tutto questo, lo shock della pandemia e l'estrema forza del cambiamento climatico.
Siamo solo all'inizio di una tempesta perfetta. Questo parziale elenco ci dice tutto: l'Afghanistan non è più nel quadro dell'urgenza della Casa Bianca, l'interesse degli Stati Uniti è a Oriente, si tuffa nel Pacifico, il problema si chiama Cina (e di rimbalzo il suo alleato, la Russia) e una sempre "più disfunzionante società che ha nome America" (Gordon Gekko, Wall Street, sceneggiatura di Oliver Stone). Biden ha già lo sguardo puntato sulle elezioni di mid-term del 2022, sa che può perdere, è stretto tra le "culture wars" dei liberal e la necessità di non perdere il primato globale. Un dilemma strategico che può condurre alla "trappola di Tucidide", una guerra con la Cina.
In questo quadro, un piano di politica interna che fa da catapulta sulle scelte di politica estera, il ritiro totale dall'Afghanistan non è un fulmine a ciel sereno, Biden ha fatto quello che aveva annunciato Trump e cominciato Obama. I vent'anni della "lunga guerra" erano un peso, non un obiettivo strategico. Il problema di Biden (che ora è tutto nostro) è il come lo ha fatto e da ieri lo è anche il come lo ha detto. Perché il Presidente ha parlato agli americani, non al mondo, perché quelle parole hanno un impatto sul futuro dell'Unione europea, sempre che i leader del Vecchio Continente ne vogliano prendere atto e non preferiscano voltare lo sguardo altrove.
Le immagini di Kabul sono quelle di un fallimento, una ritirata senza onore che peserà come un macigno sulla Casa Bianca. C'erano solo due modi per compiere l'atto del ritiro: bene e male. Non ci sono dubbi sul come sia andato, male. I disperati afghani aggrappati agli aerei militari nell'aeroporto di Kabul, lo schianto di quelle anime al suolo (immediato il richiamo del "Falling Man" dell'11 settembre 2001), sono l'istantanea che resterà per sempre come una macchia sull'America e l'intero Occidente.
Ieri sera abbiamo anche appreso che un'amministrazione che ha comunicato fin dal primo giorno (sempre, in tutta la campagna presidenziale) il ribaltamento delle decisioni dell'amministrazione Trump ha invece seguito per filo e per segno quelle sull'Afghanistan. Biden inoltre si è ben guardato dall'assumersi la responsabilità della caduta accelerata dell'Afghanistan, ha rovesciato tutto sulle spalle dei soldati afghani (addestrati dagli americani, ma è un dettaglio), i quali sarebbero dovuti andare a morire mentre i loro capi politici (appoggiati dagli americani, ma è un altro dettaglio) scappavano all'estero o ottenevano dei salvacondotti spianando la strada per Kabul ai Talebani. Non una parola sugli alleati, su una ritirata che pesa sulla coscienza di tutti.
Biden ha ordinato la ritirata sbagliata (nei tempi e nei modi, in piena stagione dei combattimenti, quando si sciolgono le nevi e si aprono le vie di trasporto di uomini e munizioni per i Talebani) e sulle sue spalle sono cadute come macigni le parole che aveva pronunciato solo cinque settimane fa, ricordate da David E. Sanger sul New York Times: "Non ci sarà nessuna circostanza in cui vedrete persone sollevate dal tetto di un'ambasciata degli Stati Uniti in Afghanistan". E ancora: "La possibilità che siano i talebani a dominare tutto e a possedere l'intero paese è altamente improbabile". Abbiamo visto gli elicotteri sul tetto dell'ambasciata americana a Kabul. Abbiamo visto i Talebani conquistare tutto l'Afghanistan.
Washington è lontana da Kabul (non lo fu l'11 settembre 2001 e questa è la grande amnesia e illusione che conduce all'errore di queste ore), ma per l'Europa le conseguenze sono enormi e stamattina ci siamo svegliati con una rivelazione: non siamo andati in Afghanistan a dare una mano a costruire nuove istituzioni. Strano, personalmente ho un ricordo diverso, esattamente opposto, la memoria e gli appunti sul mio taccuino, le parole degli ufficili degli Stati Uniti e della Nato che ho incontrato in più occasioni a Bruxelles, a Washington, a Norfolk e a Roma. Cosa penseranno oggi dell'America, dopo vent'anni di sacrifici e lutto i nostri soldati e i diplomatici che hanno lavorato con passione per dare un futuro al popolo afghano? A Kabul è tornata la legge della sharia.
Anthony Blinken, in un tour de force sulle televisioni americane si è sforzato di levare l'ombra di un altro Vietnam dalla Casa Bianca: "Non è Saigon". Ha ragione, non è Saigon, è Kabul dopo vent'anni di occupazione americana, è il "nation building" oggi ripudiato dal suo Presidente. Non è solo una sconfitta, è una disfatta.
Sul piano storico, il disimpegno americano mette l'Europa di fronte a qualcosa di nuovo e preoccupante. L'Unione europea è priva di un esercito (e dunque di una politica estera comune), le manca uno strumento vitale che è la classica continuazione della politica con altri mezzi (leggere Carl von Clausewitz). A Bruxelles a questo punto s'impone una riflessione profonda, i leader europei devono porsi la domanda: che fare? Perché qualcosa bisogna fare, non è più una questione rinviabile, ci sono missioni militari importanti autorizzate e in pieno dispiegamento (quella molto articolata nel Sahel che ci impegna direttamente, in territorio dove sciamano spietate milizie jihadiste), altre ne verranno programmate in futuro. Inoltre, il cancello spalancato ai Talebani in Afghanistan avrà un impatto sulla sicurezza in Medio Oriente (un'America in fuga dall'Asia Centrale incoraggia le azioni contro Israele) e farà sentire il suo peso sulle ondate migratorie. Vanno messi a punto i piani per la sicurezza nel Vicino Oriente (dove infuria una battaglia per il controllo delle risorse energetiche), fissati chiaramente i rapporti con la Turchia di Erdogan (che a questo punto assume un ruolo ancora più determinante), studiato uno strumento di difesa comune dell'area del Mediterraneo, ridefiniti la missione e il bilancio della Nato, anche il negoziato sul nucleare iraniano viene curvato dall'onda d'urto del ritiro dall'Afghanistan. Per l'Unione europea si tratta di una sfida che chiude definitivamente l'era degli accordi di Yalta e apre una terra senza mappe che va esplorata subito, prima di essere aggrediti da una realtà popolata di mostri.
Si tratta di un tema esistenziale, riguarda il futuro prossimo e quello della "longue durée", lo spazio e il tempo dei nostri figli. Per questo è necessario e urgente un dibattito parlamentare e - in un'Europa dove tra poche settimane non ci sarà più la leadership di Angela Merkel - capire quali saranno gli orientamenti del governo. Sarà importante soprattutto ascoltare la visione del premier Mario Draghi. Le speranze sul rilancio della costruzione dell'Unione europea, in questo scenario di ferro e fuoco, oggi ricadono sulla sua figura. Sul mio taccuino c'è una sua frase appuntata: "Non c'è sovranità nella solitudine". Vero, attendiamo di sapere con chi stiamo e in quale maniera, perché la caduta di Kabul, le parole di Biden, sono un cambio della schermata del videogame. Atlantism e europeismo, ripete sempre Draghi. Concordiamo, ma il "come" è diventato urgente.
Sul taccuino c'è un filo rosso che lega una serie di eventi e ci conduce fino a oggi: la caduta di Saigon (1975), l'invasione dell'Unione Sovietica in Afghanistan (1979-1989), la rivoluzione khomeinista in Iran (1978-1979), l'attacco alle Due Torri (11 settembre 2001), l'invasione dell'Afghanistan (2001), l'invasione dell'Iraq (2003). Il legame è quello di un continuo passaggio della storia verso Oriente che ha scolpito le biografie dei presidenti americani e un declino costante dell'Occidente, fino all'ascesa della Cina come nuova/vecchia potenza.
John Fitzgerald Kennedy invase il Vietnam, Nixon e Kissinger preparano il ritiro delle truppe, portato a termine da Gerald Ford; Jimmy Carter fu colpito e affondato dalla crisi degli ostaggi a Teheran; Ronald Reagan vinse la sua lunga partita a scacchi con l'Unione Sovietica fornendo armi via Pakistan ai mujaheddin in Afghanistan (e qui apparve Osama Bin Laden, destinato a diventare la figura sinistra del nuovo millennio); George H. W. Bush mise la firma sull'operazione "Desert Storm" e inviò il comandante Schwarzkopf in Kuwait per rispedire le truppe di Saddam Hussein in Iraq, non fece cadere il dittatore, lasciò il conto aperto; Bill Clinton fu colpito dall'esplosione al World Trade Center, dall'attentato alla nave USS Cole nel porto di Aden e perse l'occasione di eliminare Bin Laden; George H. Bush vide crollare le Due Torri a New York e bruciare il Pentagono a Washington, tremila morti, il più grave attacco sul suolo americano dai tempi di Pearl Harbor, cominciò la lunga guerra in Afghanistan e quella in Iraq; Barack Obama le proseguì, fece una politica estera erratica, varò la guerra dei droni in grande scala, aggiornò la "killing machine" americana e la lista degli obiettivi, eliminò Osama Bin Laden con un blitz in Pakistan, a Abbottabad, favorì la strategia delle "proxy war", le guerre conto terzi, sostenne le primavere arabe, si fece convincere da Hillary Clinton a far cadere il colonnello Gheddafi in Libia, la sua politica in Siria fu un disastro, rimase immobile sulla "linea rossa" con Damasco e spalancò il cancello all'Isis, partì una guerra regionale costellata di atrocità tra la Siria e l'Iraq, Vladimir Putin pubblicò un commento sul New York Times l'11 settembre del 2013 affermando la fine "dell'eccezionalismo americano", i cacciabombardieri di Mosca spazzarono via l'Isis e l'uomo del Cremlino organizzò un concerto nella meravigliosa città Palmyra liberata dalle bande nere; Donald Trump vinse le elezioni sorprendendo tutti, fu sempre riluttante alla guerra, riuscì a ingaggiare una guerra di pulsanti con Kim jong-un in una psichedelica estate, poi si incontrarono, polverizzò con i missili hellfire il rifugio di Abu Bakr al-Baghdadi in Siria, firmò gli Accordi di Abramo tra gli Emirati Arabi, il Bahrein e Israele, ponendo fine all'isolamento diplomatico dello Stato ebraico in Medio Oriente, in pinea campagna presidenziale, promise il ritiro dall'Afghanistan, la riduzione delle truppe in Iraq, l'abbandono del Kurdistan, trattò con i Talebani e là si fermò, cambiò i segretari della Difesa con le porte girevoli, non ne fu mai contento (e non solo di loro, neppure degli stellati che chiamò alla Casa Bianca), ma lasciò fare a quei generali e non ci fu la ritirata precipitosa, prese il coronavirus, perse le elezioni, arrivò Joe Biden. E il nuovo Presidente non ascoltò i generali.
Sono i cicli della storia, l'Oriente è un'opportunità e un problema. La caduta dell'Occidente in Afghanistan apre una strada alla Cina (che ha subito lanciato segnali ai Talebani e evocato lo strumento di espansione geopolitica, la Belt and Road) e automaticamente fa carambolare di nuovo la Russia nella dimensione di quello che Rudyard Kipling battezzò come "il Grande Gioco".
Ascesa e declino delle grandi potenze, cicli storici, sono il passato e presente della storia americana (il fil rouge degli ultimi cinquant'anni, dell'intera commedia umana), s'incrociano ancora una volta con il lontano e il vicino Oriente, la lotta tribale dell'Asia centrale. Cambiano i volti, i nomi, la cronaca, la storia si ripete in altra forma. Oggi tocca a noi. Europa, se ci sei, batti un colpo.