Il governo di Shinzo Abe ha individuato nella Cina il principale problema strategico del Giappone, tanto che a Tokyo la percezione della minaccia cinese è ancora superiore che a Washington. Il Giappone sostiene la visione strategica di un Indo-Pacifico libero e aperto (FOIP, Free and Open Indo-Pacific) che, inter alia, porti a maggiore sicurezza e cooperazione economica con paesi dalla posizione analoga quali Australia, Stati Uniti e, in misura minore, India e partner europei come Francia e Regno Unito. A livello militare, i decisori giapponesi hanno promesso un ampliamento degli scali strategici e delle esercitazioni militari della marina giapponese e della sua interoperabilità congiunta con le forze amiche nell’Oceano Pacifico e nell’Oceano Indiano. L’obiettivo del Giappone è bilanciare l’espansione della Cina nei due oceani, e soprattutto nel Pacifico.
Un fondamento principalmente economico
Pur sottolineando l’importanza della sicurezza marittima e di un maggiore coordinamento militare tra paesi dalla visione analoga, a difesa di un ordine internazionale basato sulle regole, la visione giapponese di un Indo-Pacifico libero e aperto ha fondamento principalmente economico. L’Asian Development Bank (ADB) stima il fabbisogno di investimenti dell’Asia-Pacifico in 26mila miliardi di dollari per il periodo dal 2016 al 2030, e il governo giapponese è una delle prime forze trainanti della connettività, con sovvenzioni e prestiti, nella regione, destinati a infrastrutture di alta qualità. L’entrata in scena della Cina con la Belt & Road Initiative (BRI) ha tuttavia spinto il governo giapponese a dedicare un’importante quantità di risorse a investimenti in infrastrutture all’estero, attraverso agenzie proprie o per il tramite dell’ADB. Il governo di Shinzo Abe ha costantemente aumentato i finanziamenti giapponesi per le infrastrutture nella regione, raddoppiando il precedente impegno d’investimenti a 110 miliardi di dollari ed erogando all’ADB altri 50 miliardi di dollari. Il governo giapponese vede con favore l’intenzione dei governi dell’Association of South East Asian Nations (ASEAN) di diversificare i donatori, come dimostra la sua diplomazia economica, che, pur silenziosa, nel sud-est asiatico eclissa il paese rivale. Secondo il Wall Street Journal, l’approccio olistico del Giappone ai finanziamenti governativi (con la triangolazione con le sue potenze dell’export) e i raddoppiati sforzi della sua diplomazia delle infrastrutture nel sud-est asiatico hanno consentito al paese di superare la BRI cinese in termini di attività estere possedute.
L’impegno del Giappone con lo Sri Lanka offre anche un’eccellente finestra sulla multiforme politica economica di Tokyo. Negli ultimi anni Tokyo ha messo a disposizione pattugliatori della guardia costiera dismessi e assistenza infrastrutturale per lo sviluppo dei porti di Colombo e Trincomalee, un evidente colpo all’appropriazione cinese del porto di Hambantota e alla sua potenziale militarizzazione. Nella strategia giapponese per l’Indo-Pacifico, sicurezza e geopolitica vanno di pari passo con le considerazioni economiche. Mentre la retorica che circondava la visione di un Indo-Pacifico libero e aperto magnificava la volontà degli aderenti a tale strategia di sostenere il cosiddetto ordine internazionale liberale, la realtà era molto più complessa. Così, per esempio, i timori giapponesi in merito all’influenza economica della Cina nel sud-est asiatico hanno portato a un forte impegno verso stati caratterizzati da una sostanziale involuzione politica, quali la Cambogia, se non addirittura dalla violenza di stato, come le Filippine di Duterte e la Birmania. La diplomazia basata sui valori del Giappone è di spirito essenzialmente realista e spinge per progetti infrastrutturali volti a prendere due piccioni con una fava, cioè a smussare le incursioni finanziarie del rivale politico del Giappone nella regione, e a sostenere al contempo le industrie giapponesi all’estero.
L’inquadramento indo-pacifico dato da Shinzo Abe alla politica estera giapponese continuerà anche sotto Yoshihide Suga. La nota mancanza di interesse del nuovo primo ministro Suga per la politica estera consente potenzialmente al suo predecessore Abe di fargli da guida e da intermediario. Di fatto, Yoshihide Suga ha promesso di continuare il lavoro del suo predecessore: “La maestria diplomatica del primo ministro Abe è davvero sorprendente. Non credo di poterlo eguagliare. Rimarrò fedele al mio stile, ricercando anche l’assistenza del ministero degli Esteri. E, naturalmente, mi consulterò con Abe”.
La sostenibilità e la diplomazia delle infrastrutture energetiche
La diplomazia giapponese delle infrastrutture e della connettività si estende anche al settore dell’energia. Secondo l’International Energy Agency (IEA), per mantenere la crescita economica, da qui al 2040 le economie dell’ASEAN avranno bisogno di 2,7 migliaia di milioni di dollari per investimenti nella trasmissione dell’elettricità, nella generazione di energia e in misure per l’efficienza energetica. Il Giappone e i partner che ne condividono la visione si stanno adoperando alacremente per sostenere le economie del sud-est asiatico lungo il fiume Mekong, come dimostra l’enfasi di Tokyo sulla spinta alla hard connectivity, in particolare per le infrastrutture energetiche, nell’ambiziosa Tokyo Strategy 2018 for Mekong-Japan Cooperation (Strategia di Tokyo per la cooperazione tra Mekong e Giappone, 2018). In sintesi, il Giappone si adopererà per un settore energetico più sostenibile, affidabile e conveniente in tutti i paesi del Mekong, Cambogia, Laos, Birmania, Thailandia e Vietnam.
Questi fondi dovrebbero consentire al Giappone di preservare un certo grado di influenza politica sui paesi beneficiari, in particolare su quelli nelle sue immediate vicinanze e su quelli d’importanza strategica. Il Giappone ha promosso attivamente il proprio sistema ferroviario ad alta velocità, chiaramente legato anche all’efficienza energetica e alla sostenibilità in tutta l’Asia orientale e meridionale. Per esempio, l’India, in virtù del suo essere una grande potenza che condivide con la Cina parte dei propri confini, oltre a una relazione complicata, è il maggior beneficiario degli strumenti della Japanese Official Development Assistance (ODA), il che fa del Giappone il maggior donatore bilaterale dell’India. Non è tuttavia chiaro se il ritorno sui finanziamenti statali all’estero si rivelerà economicamente sostenibile sia per la Cina sia (seppur in misura minore) per il Giappone. Dopotutto, alcuni di questi progetti si trovano a essere pesantemente offuscati da considerazioni politiche e dalla vicinanza, potenzialmente nociva, tra attori pubblici e privati. Un esempio di sicuro rilievo è il gigantesco progetto del collegamento ferroviario ad alta velocità Ahmedabad-Mumbai, sponsorizzato dal Giappone. L’ammontare dei generosi prestiti dell’ODA giapponese, denominati in yen, per questo solo progetto equivale a 13 miliardi di dollari, pari a un terzo dei fondi ODA impegnati in India a partire dal 1958 (39 miliardi di dollari) e a poco meno della metà dell’importo totale dei prestiti ODA erogati dal Giappone alla Cina tra il 1979 e il 2013 (30 miliardi di dollari).
Anche gli Stati Uniti hanno specificato la propria partecipazione economica alla visione strategica di un Indo-Pacifico libero e aperto. Durante la presidenza di Donald Trump, i rappresentanti del governo australiano e delle banche politiche giapponesi e statunitensi hanno inaugurato un partenariato trilaterale per gli investimenti infrastrutturali nella regione. La giapponese Japan Bank for International Cooperation (JBIC) e la statunitense Development Finance Corporation (DFC) coordineranno il finanziamento delle infrastrutture, insediando a Tokyo un rappresentante della DFC dedicato. Gli Stati Uniti stanno finalmente intensificando la propria diplomazia delle infrastrutture, a seguito del Better Utilization of Investments Leading to Development Act (BUILD Act, Legge per il miglior uso degli investimenti per lo sviluppo), che ha più che raddoppiato il budget della DFC, portandolo a 60 miliardi di dollari, consentendo così alla nuova banca politica statunitense di lavorare a stretto contatto con la JBIC e più in linea con il suo budget di 100 miliardi di dollari circa.
La politica estera in collaborazione con Paesi partner
L’impegno del Giappone nel Pacifico è indicativo dello slancio della diplomazia energetica del paese, che possibilmente si dispiega anche in collaborazione con partner dalla visione analoga. Nel 2019, la visita del ministro degli Esteri giapponese nelle isole del Pacifico (la prima di alto livello in 32 anni) è stata perfettamente coordinata con le iniziative di Washington, Canberra e Wellington. Vanuatu, dove nel gennaio 2020 si è inaugurata una nuova missione diplomatica giapponese, era allora lo stato insulare che con più probabilità avrebbe ospitato, in futuro, una struttura militare cinese, con conseguente espansione della marina cinese oltre la cosiddetta First Island Chain. Il governo giapponese è anche impegnato in progetti infrastrutturali congiunti, con partenariati pubblico-privato sponsorizzati dalle banche politiche giapponesi, australiane, statunitensi e neozelandesi: tra i progetti, l’ampliamento della rete elettrica della Papua Nuova Guinea e il cofinanziamento di una fornitura di gas naturale liquefatto (GNL) e di sistemi di telecomunicazione. Da parte sua, Canberra ha istituito l’Australian Infrastructure Financing Facility for the Pacific e ha ampliato il mandato e la capacità finanziaria della sua agenzia di credito all'esportazione e di finanziamento delle infrastrutture all'estero. Ed è ancor più rimarchevole che gli sforzi del Giappone nel Pacifico si siano anche avvalsi dei buoni uffici di un’importante organizzazione no profit giapponese, che ha integrato e sostenuto le attività in loco del governo, per “aumentare l'efficacia della strategia del governo giapponese per la sicurezza regionale delle isole del Pacifico”, come si legge in uno dei progetti finanziati. Il Blue Dot Network, il sistema per la certificazione delle infrastrutture istituito dagli Stati Uniti nel 2019 in stretta collaborazione con Giappone e Australia, si fonda sull’agenda della Partnership for Quality Infrastructure, su cui Tokyo ha insistito fin dal vertice del G7 di Ise-Shima del 2016 e dal vertice del 20 di Osaka del 2019. Il Giappone è un leader silenzioso nella diplomazia delle infrastrutture, nella misura in cui l’agenda del G7 di Biden a favore del coordinamento della connettività con l’iniziativa Build Back Better World (B3W) può considerarsi un ulteriore risultato degli schemi diplomatici di Tokyo. Ciò detto, queste iniziative sono allo stato embrionale ed è ancora da vedere come evolveranno. Gli sforzi congiunti di Unione europea e Giappone nell’ambito dell’Accordo di partenariato strategico (Strategic Partnership Agreement) e dell’agenda bilaterale per la connettività rimangono ancora senza effetto. Anche nell’ambito di questi sforzi economici multilaterali, il riferimento all’India nella visione di un Indo-Pacifico libero e aperto è da intendersi, nella migliore delle ipotesi, come un mero artificio retorico. Di fatto, l’India è chiaramente un beneficiario netto della diplomazia economica di Giappone, Europa e Stati Uniti. Infine, ci sono le tensioni con un’agenda più protezionista e mercantilista, mentre Stati Uniti, Giappone e gli stati membri dell’Unione europea sono interessati a promuovere ciascuno i propri campioni nazionali su mercati in forte espansione, oppure sono impegnati a costruire una politica estera per la classe media, se non una vera e propria autonomia strategica. E ancora, la cooperazione su progetti congiunti per la connettività ha senso sulla carta, ma il coordinamento tra donatori e paesi beneficiari non è certo impresa facile.
Tensioni tra acquirenti e venditori e rivalità commerciali
Gli ostacoli sono gli stessi che si evidenziano nella diplomazia delle infrastrutture energetiche. Il progetto di Australia, Giappone, Stati Uniti e Nuova Zelanda per la rete elettrica della Papua Nuova Guinea ha comportato un coordinamento decisamente basso per un progetto mirato allo sviluppo di un solo paese; non è stato un caso di collaborazione attiva. Un caso di studio interessante è anche quello del gas naturale, che per il Giappone significa gas naturale liquefatto (GNL). Gli Stati Uniti hanno ampliato le proprie esportazioni di GNL in Asia, perché l’Asia è un mercato enorme per il GNL. L’Australia in questo senso è un concorrente degli Stati Uniti, essendo suo rivale nell’esportazione di GNL. Inoltre, il Giappone come acquirente di gas vuole avere i diritti di rivendita per il gas che compra dall’Australia, ma l’Australia, come venditore, non vuole, perché questo creerebbe un mercato secondario. In che modo la strategia di un Indo-Pacifico libero e aperto potrà mai affrontare queste tensioni tra acquirenti e venditori e tra venditori rivali, a prescindere dalle analogie tra le loro visioni strategiche? Solo il tempo dirà se il Giappone e i paesi che ne condividono la visione sapranno promuovere, nella regione, una cooperazione economica multilaterale davvero efficace.
* Giulio Pugliese è lecturer presso la Oxford School of Global and Area Studies della University of Oxford, Part-Time Professor presso il Robert Schuman Center dell'European University Institute e Senior Research Fellow presso l'Istituto Affari Internazionali (IAI). È specializzato in politica ed economia internazionale dell'Asia-Pacifico, con particolare focus su Giappone, Cina e Stati Uniti. Articolo pubblicato sul numero di luglio di We World Eenergy
“WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell’energia pubblicato da Eni - diretto da Mario Sechi - che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore”.