AGI - A Marcinelle l’inferno non arrivò con l’esplosione di grisou di 65 anni fa. Era piuttosto, come l’inferno vero, un girone che ruotava su se stesso, non fermandosi mai, da tempo immemorabile, e che sarebbe sempre girato sul proprio asse come una vite cieca. Quando salivi sul montacarichi e tornavi in superficie sapevi che si trattava solo di un rapido respiro preso nel mondo dei vivi: meglio approfittarne.
Fu così che l’8 agosto 1956 Tiberio Murgia, giovane sardo capitato in quella bolgia da qualche mese, riuscì a concordare un incontro amoroso. Quella sera gli sarebbe toccato scendere, a dir la verità, nel pozzo del Bois du Caziers, ma lui aveva 27 anni e nonostante un fisico non esattamente atletico nutriva grandi aspirazioni da amatore.
Si fece sostituire, e fu la sua fortuna. Non per l’incontro amoroso: per il fatto che la mattina dopo riuscì a vedere il sole. Imparò così, nel modo più crudele, che non si può sapere cosa avverrà nel futuro. L’amico che lo aveva sostituito non ebbe la stessa chance.
Morto lui, morti tutti quelli del suo turno. Morti in 262, secondo alcune stime. Secondo altre 235. All’epoca, quando la Camera affrontò l’argomento, i numeri erano ancora fermi a 163. A Marcinelle avevano finito da tempo di scavare tra i tunnel crollati (si era già in ottobre), ma non di contare.
Una 'seduta' decisiva
Fu, la seduta del 4 ottobre 1956, il momento in cui l’Italia capì, al di là dell’emozione dei primi giorni e del dolore e dell’indignazione (tutto lecito, tutto doveroso, tutto esatto), capì si diceva l’enormità di quello che era accaduto. E prese, con ogni probabilità, coscienza di due cose: che la parte non scritta della pace raggiunta a Parigi quasi dieci anni prima – quella che ci impegnava a fornire manodopera a basso costo come forma ufficiosa di riparazione di guerra – non poteva più essere rispettata.
E che l’Europa della Comunità del Carbone e dell’Acciaio era un bel palazzo fabbricato, per dirla con il Guicciardini, con la calce impastata del sangue dei cittadini liberi. Seduta misconosciuta nella sua importanza, quella alla Camera, e non solo perché avvezzi come siamo a non ricordarci che la nostra è una democrazia parlamentare ci dimentichiamo che Montecitorio era e resta uno dei due polmoni della nostra Repubblica.
Ma anche e soprattutto perché fotografa la disperazione e l’ottusità, l’ansia punitiva di guadagno e la meschinità, e insieme costringe a una riflessione sulla sicurezza sul lavoro, sulla necessità di reclamare in Belgio trattamenti più umani e – per converso – d'introdurli in Italia. Un anno prima, a Spoleto, in circostanze non del tutto dissimili a quelle di Marcinelle di minatori ne erano morti 22.
Oltre 650 invece erano gli italiani che, dal ’46 ad allora, avevano perso la vita nei pozzi estrattivi della Vallonia. Ma prima di rievocare il come e il perché, e chiederci come fosse possibile così come se lo chiesero alla Camera, citiamo i partecipanti al dibattito parlamentare. Non senza l’ausilio della Navicella, il “Chi è” di Montecitorio: era la II Legislatura, troppo indietro nel tempo.
Tra loro ricordiamo Bruno Corbi, comunista, Cino Macrelli, repubblicano, Filomena Delli Castelli che è democristiana, è l’unica donna e sa tener testa ai colleghi se necessario. Ciò detto, quella che emerge è una storia riassumibile in due idee essenziali: migranti e morti sul lavoro. E tanto caporalato. Se qualcuno, riscontrandovi attinenze con la più stretta attualità, se ne stupisce tenga conto che anche questo è come l’inferno: esiste da sempre e da sempre ruota su se stesso come una vite cieca.
Gli italiani emigrati in Belgio
In Belgio lavoravano oltre 150.000 italiani, un terzo dei quali nelle miniere. Una città intera fatta di disperati, poveretti, sfruttati. Gli abitanti di un termitaio. Ma senza quelle termiti in Italia qualcuno sarebbe morto di stenti: le loro rimesse servivano letteralmente come il pane per chi era rimasto a casa. Non solo questione di riparazioni di guerra, quindi, ma di vera necessità.
Sono gli ultimi arrivati, a loro spetta la parte peggiore. Ricorda Corbi, ad esempio, che ormai gli stesi belgi “fuggono da queste tombe”, perché tombe sono diventate da tempo le miniere: “pochi restano a lavorare nel fondo e quei pochi svolgono mansioni diverse dagli italiani, anche per la più ricca esperienza che hanno del lavoro”.
Sono “i cosiddetti porion, chef porion, conducteurs de travail”. Ai nuovi arrivati spetta il “lavoro più difficile e più pericoloso, laddove occorrerebbe una lunga e sicura esperienza, che i nostri braccianti pugliesi o siciliani, o i nostri montanari abruzzesi, o i poveri contadini friulani non hanno né possono avere”.
Carne da macello, perché “si scende oltre i 1.000 metri, e quando si è lì si ha alle costole non un superiore che sta a insegnare come ci si deve proteggere, come si deve fare per produrre di più, ma un aguzzino che pungola minuto per minuto, cui poco importa se un minatore vi lascerà la pelle, perché morto un italiano ve ne sarà un altro a prenderne il posto”.
La miseria e la tragedia
Il teatro è il terribile "Bois du Caziers”, e non è un caso: “È una miniera che sarebbe stata già posta in disarmo se non vi fossero stati italiani bisognosi di un pezzo di pane a qualunque costo”.
Un pozzo “ufficialmente riconosciuto di terza categoria, cioé tecnicamente arretrato, nel quale non si potrebbe e non si dovrebbe lavorare, a meno che non si proceda ad un ammodernamento di tutti gli impianti”. Perché non è stato fatto? La risposta è semplice e terribile: “non converrebbe più agli azionisti belgi”.
Via allora così, con la stessa mentalità da Congo leopoldino: “Vi saranno dei morti? Pazienza, una commemorazione, una orazione funebre, qualche bara con la bandiera del paese al quale il disgraziato morto appartiene, poche migliaia di lire alla vedova o agli orfani, e le cose seguitano come prima”.
Di soldi, del resto, ne bastano pochi: in media “si guadagna sui 320 franchi belgi, bastano appena per vivere”. E non è neanche detto che a fine mese arrivino tutti, perché “bisogna raggiungere i 9 metri cubi di carbone estratti, quando per arrivarci bisogna essere minatori già esperti, e ciò avviene dopo mesi e mesi di esperienza e di sacrifici”.
A questo punto, quando si inizia a vedere un po’ di stabilità nella miseria, “arriva lo chef porion, cambia di posto il minatore e io adibisce ad una vena più difficile” e si deve ricominciare da capo. Un metro cubo, due, quattro. Fino a nove. E di nuovo lo chef porion ti cambia di posto.
Non ci si stupisca, come non era possibile farlo allora, se “sotto la minaccia di essere cacciati dal lavoro per scarso rendimento, nessun minatore sta a preoccuparsi di una piccola fuga di gas o di una parete che minaccia di crollare”. Ci si aggrappa a una sola cosa, “la speranza è che il peggio non accada durante la sua permanenza in miniera”. E se tu capita, a casa qualcuno piangerà.
Pare che quella seduta servisse, oltre a dare all’Italia un atteggiamento più assertivo in sede europea, anche a far capire che era giunto il momento, da noi, di introdurre una legislazione più seria sulla sicurezza al lavoro. Anche la silicosi, finalmente, finì per essere riconosciuta come malattia professionale; sino ad allora lavoravi nelle cave e se i polmoni ti diventavano di pietra era peggio per te.
Quanto a Tiberio Murgia, che quella sera imparò come basti fatalmente un soffio per finire nella imprevedibile tragedia, il destino fu ulteriormente benigno. Lasciò quel pozzo maledetto, tornò in Italia e tre anni dopo fu scoperto da un maestro del cinema come Mario Monicelli, che lo volle ne “I soliti ignoti”. Film in cui l’Italia ormai giunta all’alba del boom economico guardava con sorriso benevolo alla piccola criminalità, e nel quale Murgia pronunciava una delle sue battute più famose.
Questa: “Se va bene o va a schifio solamente lo sa Iddio”. E magari, pronunciandola per far sorridere la gente al cinema, pensava a quella sera in cui aveva capito che era tutto vero, che era proprio così. Perché anche il boom economico, proprio come la commedia all’italiana, avevano un retrogusto amaro, di carbone che ti riempie la bocca e i polmoni.