AGI - Decine di musulmani hanno preso d'assalto e saccheggiato il tempio induista di Rahim Yar Khan, nel Pakistan centrale, in reazione al rilascio su cauzione di un bambino che era stato accusato di blasfemia. Il minore, un undicenne, era stato denunciato da un religioso per aver urinato in un seminario locale. La magistratura ha aperto quindi un'inchiesta per oltraggio all'Islam. La decisione del tribunale di liberarlo, pur non archiviando l'accusa, ha fatto esplodere la furia dei manifestanti, i quali hanno chiesto che il bambino fosse arrestato o fosse consegnato loro.
Le forze dell'ordine hanno trasferito in una località "sicura e sconosciuta" il bambino e la sua famiglia, alla quale non è bastato scusarsi pubblicamente e affermare che il piccolo soffra di problemi mentali. Alcuni video diffusi sulle reti sociali mostrano gli aggressori fracassare le finestre con sbarre di ferro. "Non ci sono troppi danni", ha assicurato Riasat Ali, un funzionario amministrativo locale, secondo il quale le forze di sicurezza sono state dispiegate per proteggere i membri della comunità indù locale.
I manifestanti, nel frattempo, continuano ad assediare il tempio, che è stato circondato dalla polizia. L'edificio è l'unico luogo di culto disponibile per le 80 famiglie induiste che vivono a Bhong, nella provincia del Punjab. Secondo la polizia, fino a 200 persone hanno dato l'assalto al tempio ieri notte, sfondandone porte e finestre, e altre 500 hanno bloccato per tre ore la principale autostrada che collega il Punjab con la provincia di Sindh in segno di protesta.
La discriminazione contro le minoranze religiose è moto comune in Pakistan, dove i musulmani rappresentano il 97% della popolazione e il restante 3% è formato, in proporzioni più o meno analoghe, da induisti e cristiani. Diversi attacchi a luoghi di culto induisti sono stati registrati negli ultimi anni nel Paese asiatico. L'anno scorso diverse centinaia di persone avevano bruciato un tempio nel nord-ovest del Paese.
La dura legge contro la blasfemia in vigore in Pakistan, strenuamente difesa dai partiti islamisti, prevede sanzioni che possono arrivare alla pena capitale per chiunque sia ritenuto colpevole di aver insultato l'Islam o il Profeta. Numerosi sono i casi di omicidi e linciaggi seguiti ad accuse non provate. La norma risale all'epoca coloniale ed era stata voluta dagli inglesi per evitare scontri interreligiosi. Fu poi riformata più volte negli anni '80 dal dittatore Mohamed Zia-ul-Haq, che la rese più suscettibile agli abusi.