AGI - Dalla sfida per arrivare su Marte al lancio di una sfera di quattro chili, a Tokyo come nello Spazio è duello perenne tra Usa e Cina. L'assenza dei russi, con la squadra incompleta per le squalifiche, e senza bandiera ufficiale, ha reso la corsa all'oro ancora più simbolico. Quello vinto, nel weekend, dalla cinese Gong Lijiao sull'americana Raven Saunder nella finale del lancio del peso femminile, è stato la sintesi di una settimana ad alta tensione, segnata dal ritiro della ginnasta Simone Biles, paralizzata dall'angoscia, e dei molti casi di depressione emersi tra gli atleti.
La stessa lanciatrice del peso Saunder appena tre anni fa aveva fermato la sua auto a pochi metri dalla scarpata dove si stava lanciando per farla finita. Si è curata dalla depressione, è tornata ad allenarsi e ha finito con l'argento olimpico, ballando davanti alle telecamere. Le storie personali confermano come le Olimpiadi siano molto più grandi dello sport. Giochi a parole. Non tra Usa e Cina.
Tokyo è arrivata dopo la guerra dei dazi imposta da Donald Trump, dopo le accuse americane a Pechino per la gestione del Covid, il divieto di arrivi negli Usa ai passeggeri cinesi, gli appelli americani a boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino 2022, le tensioni per le violazioni dei diritti umani contro gli Uiguri, la minaccia cinese in Mongolia e Hong Kong. Anche qui il grande avversario è la Cina.
Fino a una quindicina di anni fa gli Usa gareggiavano contro loro stessi, unico Paese con più di mille medaglie d'oro, più di Russia e Germania messe insieme, comprese la vecchia Unione Sovietica e le due Germanie. La Cina era una piccola nazione sportiva: alle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles l'unico velocista, Liu Changchun, non era riuscito a qualificarsi neanche per le finali dei 100 e 200. Nel 1984, sempre a Los Angeles, la Cina conquistò la sua prima medaglia d'oro, nel tiro da 50 metri. Poi dagli anni '90 e' diventata una delle nazioni più competitive, fino al record di ori vinti a Pechino nel 2008, più degli Stati Uniti, che poi si sono ripresi il primato a Londra 2012 e Rio 2016.
Gli undici ori conquistati dalla nazionale americana nel nuoto, nel segno di Katie Ledecky, Calaeb Dressel e Robert Finke, hanno rimesso gli Usa al centro del villaggio olimpico. Ma i primi giorni avevano visto la Cina protagonista di una grande partenza: sabato 24 luglio la star era stata la giovane tiratrice Yang Quian, vincitrice del primo oro.
Il lunedì erano arrivati i trionfi nei tuffi, scherma e sollevamento peso. Dopo i primi due giorni la Cina conduceva 11-10 sugli Usa per medaglie vinte, e 6-4 nell'oro. Su Weibo, la versione censurata cinese di Twitter, i Giochi sono stati il top trend, con migliaia di messaggi in cui si chiedeva alla "Marcia dei Volontari", il nome dell'inno cinese, di "asfaltare tutti nel piccolo Giappone".
Di pari passo con le competizioni, Weibo dà voce al nazionalismo più spietato, al punto che la stessa Quian, oltre agli elogi, ha ricevuto insulti perché nel suo profilo compaiono le sneaker dell'americanissima Nike, il cui marchio è stato bannato da quando, a marzo, sono piovute accuse sui cinesi per lo sfruttamento di mano d'opera. La foto, in realtà, risale a dicembre, ma per il popolo dei social, anche nella controllata Cina, è un dettaglio.
L'orgoglio nazionale resta l'ultima possibilità per tutti. Gli Usa sono destinati a confermarsi al primo posto come medaglie: le previsioni di Nikke e Financial Times dicono che chiuderanno con 121 medaglie, come a Rio 2016, e la Cina a 72. La facile vittoria delle americane del rugby sulle cinesi per 28-14 esalta più di un successo dell'All Star di basket. Ognuno pubblica la classifica declinata in base alle proprie esigenze: fino a domenica sera, chiuso il secondo weekend olimpico, in Cina preferivano mostrare la classifica per ori vinti (24 contro i 20 di Team Usa), i media americani quella per totale delle medaglie (59 vinte contro le 51 dei cinesi).
Pechino ha accusato Washington di vedere la Cina come un "nemico immaginario", ma a Tokyo continua a essere un avversario concreto, anche se meno minaccioso.