AGI - Tre volte “guilty”, colpevole. Di omicidio di secondo grado, omicidio di terzo grado e omicidio preterintenzionale. Quando, dopo tre settimane di dibattimento e 46 testimoni, il giudice del tribunale di Minneapolis, Peter Cahill, ha letto il verdetto della giuria popolare, Derek Chauvin è sembrato non rendersi conto di cosa gli stesse accadendo: condannato per tre capi di imputazione, ognuno dei quali comporterà una pena distinta, che il giudice quantificherà nelle prossime settimane.
L’ex poliziotto rischia da 40 a 75 anni di carcere, una pena che per lui, a 44 anni, equivarrebbe a un ergastolo. Chauvin ha lasciato l’aula in manette, per rientrare in carcere. Si è chiuso così il processo per la morte di George Floyd, l’afroamericano ucciso durante l’arresto la sera del 25 maggio 2020 e diventato il simbolo di una battaglia nazionale per i diritti civili.
L’uomo era stato fermato con l’accusa di aver spacciato una banconota falsa da venti dollari. Chauvin lo aveva tenuto per nove minuti e 29 secondi a faccia in giù, steso per terra, ammanettato, con il ginocchio premuto sul collo.
Il verdetto è arrivato, in modo eloquente, prima del previsto. Quando nel pomeriggio di Minneapolis era stato annunciato che la giuria formata da dodici membri aveva raggiunto l’unanimità su tutti e tre i capi di imputazione, è apparso chiaro che per Chauvin sarebbero arrivate brutte notizie. Per lui sono state le peggiori: colpevole di tutti e tre i reati, primo poliziotto a subire una condanna del genere in un’America in cui troppo spesso gli agenti sono usciti a assolti o neanche processati dopo le accuse di brutalità nei confronti delle minoranze, afroamericani e ispanici.
Ma se è stato possibile arrivare a una sentenza storica, è grazie alla determinazione di una ragazza afroamericana di 17 anni, Darnella Frazier, che quel giorno ebbe la freddezza di riprendere tutta la scena con il suo cellulare. Il video finì sui social e scatenò la protesta in tutti gli Stati Uniti. Senza quelle immagini agghiaccianti e incontestabili, forse non ci sarebbero stati questo processo e questa attenzione.
Davanti alla tv, collegati sui maggiori network, c’erano anche il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, assieme alla vice, Kamala Harris. Biden aveva auspicato che arrivasse un verdetto severo. “Sono prove schiaccianti”, aveva commentato poche ore prima. Le sue parole non sono arrivate nella stanza dove i membri della giuria popolare si erano riuniti da lunedì.
Il verdetto ha scatenato l’applauso degli attivisti radunati fuori dal Tribunale, tra cui la fidanzata di Floyd, Courteney Ross, che tra le lacrime ha commentato: “E’ fatta giustizia”.
Il fratello della vittima, Philonise Floyd, è scoppiato a piangere: “Spero che adesso - ha detto - io possa finalmente trovare un po’ di riposo e dormire”. Festeggiamenti in molte città degli Stati Uniti, applausi sono partiti spontanei nelle strade di New York, Chicago, Boston. Dopo aver ricevuto una telefonata da Biden e Harris, l’avvocato della famiglia Floyd, Ben Crump, è entrato nella sala dell’Hilton dove erano in attesa parenti e amici della vittima, e ha urlato: “Pronunciate il suo nome”. E tutti hanno gridato: “George Floyd”.