AGI - “Lottare contro le cattive condizioni di lavoro delle migranti marocchine in Spagna significa lottare contro il razzismo, il sessismo e ogni altra forma di disuguaglianza sul posto di lavoro”. Chadia Arab, geografa e ricercatrice francese di origine marocchina, insegna geografia sociale e delle migrazioni presso l’Università di Angers ed è autrice di Fragole. Le donne invisibili della migrazione stagionale (LUISS University Press, 2020) in cui illustra come da una vicenda particolare si possa risalire a questioni generali che parlano a tutti.
Arab ha condotto un’approfondita ricerca sui lavoratori invisibili per la politica e per i consumatori ma essenziali nella filiera che porta nei supermercati e nelle nostre case frutta e ortaggi a basso prezzo. L’esperta di flussi migratori e discriminazioni di genere discuterà di questi temi al festival Internazionale a Ferrara, domenica 14 marzo alle 16, on line sulla pagina Facebook della rivista diretta da Giovanni De Mauro.
Da dove viene il Suo interesse per le migranti che lasciano i loro Paesi per andare a lavorare nelle coltivazioni di fragole?
Ho scelto di occuparmi in particolare di popolazioni “rese invisibili”, ma la questione di genere non è anodina anzi mi ha condotto a pensare alla situazione di donne che lavorano in agricoltura, che sono soltanto cifre scritte nei rapporti e nei verbali. Ho voluto dar loro un volto e una storia, studiandone la vita in Marocco, il percorso migratorio e le condizioni di “abitazione” in Spagna. Era importante raccontare la situazione di quelle donne, perché è una cosa che esse stesse, essendo in maggioranza analfabete, non sono in grado di fare spontaneamente. Quello che emerge grazie allo studio della migrazione circolare femminile è un sistema di precarietà e disuguaglianza.
Come è nato il suo interesse verso lo studio degli “invisibili”?
Direi anche per via della mia storia personale: sono figlia di un immigrato marocchino. Mio padre infatti è andato a lavorare in Francia nel 1965. Ed è per questo che, prima di passare alle ricerche sulle lavoratrici stagionali marocchine in Spagna, mi sono occupata in particolare dei migranti maschi. Ma mi è sembrato importante lavorare anche sulle donne perché attualmente rappresentano la metà della popolazione migrante del mondo e troppo spesso sono le grandi dimenticate del nostro lavoro di ricerca. Ma questo studio consente anche di sensibilizzare l’opinione pubblica. Il lavoro di ricerca può essere un mezzo per agevolare e orientare le decisioni politiche nella misura in cui fornisce ai decisori gli strumenti e le conoscenze necessari per agire. Infine, i miei studi attuali poggiano su una geografia di genere, una geografia delle disuguaglianze e una geografia intersezionale, in cui s’intrecciano le diverse forme di discriminazione legate alla razza, al sesso e alla classe. E le lavoratrici stagionali marocchine in Spagna sono l’esempio perfetto per illustrare quest’orientamento delle scienze sociali.
Chi sono le “fragolaie” che Lei ha incontrato?
Partiamo da un dato: i contratti che vengono fatti loro prevedono dei criteri di selezione che garantiscano che le lavoratrici tornino nei paesi di provenienza. Si tratta di condizioni chiaramente discriminatorie: essere donne e avere figli piccoli. Benché fra le condizioni di questi contratti non sia esplicitamente compresa la povertà, si tratta chiaramente di donne vulnerabili, precarie e povere: le nostre indagini lo hanno largamente dimostrato. Per queste donne, partire non è una scelta, bensì una necessità per tirarsi fuori dalle difficoltà economiche che vivono nei paesi di provenienza. I miei studi hanno mostrato che la lavoratrice stagionale tipica ha un’età compresa fra i 35 e i 45 anni; è divorziata o vedova; proviene dall’ambiente rurale; ha tre figli di età media compresa fra i 10 e i 20 anni; è analfabete e non ha ricevuto un’istruzione scolastica; proviene da famiglie numerose. Inoltre quasi l’80 per cento ha un reddito mensile estremamente basso. In Marocco, l’equivalente dello Smig francese (il salario minimo lordo), si aggira sui 2.500 dirham al mese, cioè 250 euro. Ma il 97 per cento di queste donne non raggiunge lo Smig. Quindi, in Marocco queste donne rientrano nelle categorie povere e precarie. E sono state scelte proprio per questi motivi, benché nel quadro del programma essi non siano esplicitati. La migrazione stagionale appare loro come una vera opportunità, che colgono nella speranza di migliorare il loro tenore di vita. Donne di condizione tanto modesta preferiscono lavorare in Spagna e sperano di tornarci anche l’anno seguente, perciò si adattano alle esigenze dei datori di lavoro, i quali possono rinnovare loro il contratto, oppure cessare unilateralmente di impiegarle senza dover motivare la decisione. Queste lavoratrici, insomma, non hanno altra scelta che accettare il rigido inquadramento e le dure condizioni di lavoro che vengono loro imposte in Spagna come in Marocco.
Una di queste donne si definisce “un’emigrante usa-e-getta”. Si può parlare di una triplice discriminazione, come donne, come migranti e come lavoratrici precarie?
Effettivamente, queste donne possono essere “gettate via” ed espulse se non lavorano come richiesto o se suscitano conflitti nelle cooperative agricole. La loro situazione è complessa perché poggia su un sistema discriminatorio, il quale si iscrive in questa politica migratoria e di gestione della manodopera concordata fra la Spagna e il Marocco. La Spagna abbisogna di dita delicate per cogliere quei frutti fragili che sono le fragole. I due paesi hanno sottoscritto alla fine degli anni 2000 un accordo per il trasferimento di manodopera, finanziato dall’Unione europea, il quale ha consentito questa migrazione circolare. Dal 2007, con il crisma dell’ufficialità, il Marocco seleziona delle “signore delle fragole” per inviarle in Spagna a lavorare al raccolto delle fragole per tre o quattro mesi. Questa partnership consente di rispondere a un fabbisogno puntuale di manodopera e al tempo stesso di lottare contro l’immigrazione clandestina. Ma il programma è chiaramente discriminatorio, perché poggia su una migrazione sessuata, cioè migrazione di donne e donne con figli, onde garantire che a fine stagione rientrino in patria. E spesso, affinché sul luogo di lavoro siano il più possibile docili, vengono scelte le più vulnerabili e povere. Questa migrazione circolare è anche una migrazione usa-e-getta, perché le lavoratrici possono essere rispedite in patria in qualsiasi momento. In Spagna, queste lavoratrici stagionali sono assoggettate a vari rapporti di potere iscritti in un continuum che va dal Paese di provenienza al paese di destinazione. Sempre in Spagna, i dirigenti delle aziende agricole sono per gran parte uomini “bianchi” di nazionalità spagnola. A favorire lo sfruttamento di queste lavoratrici è una triplice dominazione: la nazionalità (lavoratrici marocchine, datori di lavoro spagnoli), il sesso (stagionali donne, datori di lavoro uomini), la classe (braccianti agricole donne e imprenditori agricoli uomini). Né va trascurato il contesto post-coloniale in cui si iscrivono i due paesi. Questo intreccio di rapporti di dominazione mette a tacere le principali parti in causa, che sono assoggettate alla globalizzazione economica in cui s’inquadrano il loro paese, il Marocco, e i suoi rapporti con l’Europa.
Che cosa ha comportato per queste donne lo scoppio della pandemia di Covid-19?
La crisi sanitaria ha infatti rivelato ed esacerbato la situazione delle più precarie: le/i migranti, le donne, le/gli abitanti dei quartieri popolari, spesso in prima linea nei lavori essenziali (operatrici/operatori sanitari, cassiere, netturbini, lavoratrici/lavoratori agricoli ecc.). Se nel 2019 sono andate a lavorare in Spagna quasi 19 mila marocchine, nel 2020 sono state soltanto settemila, a causa del fermo dei trasporti internazionali. Per via della penuria di manodopera agricola in Europa, queste marocchine hanno lavorato senza mai fermarsi nelle coltivazioni di fragole, e anzi i loro contratti sono stati addirittura prorogati. Il problema ulteriore è che i datori di lavoro esortano le donne a raccogliere le fragole senza dispositivi di protezione, a rischio delle mani e della salute, per non danneggiare questi frutti delicati. Oggi, nel contesto della crisi sanitaria, ha senso interrogarsi sulla questione del distanziamento fisico nelle serre, dove fa molto caldo, ma anche sulla forte promiscuità, sulle condizioni di trasporto e sul rispetto delle norme di protezione.
Che genere di iniziativa occorrerebbe intraprendere secondo Lei per tutelare i diritti di queste lavoratrici?
Bisognerebbe garantire loro un alloggio decente quando si trovano in Spagna, è compromesso anche il loro diritto alla mobilità. Non sono libere di circolare perché non hanno i documenti. Per il benessere di queste donne, una condizione necessaria sarebbe appunto la regolarizzazione: era stato loro promesso che, fatte quattro stagioni, avrebbero potuto fare domanda di regolarizzazione, ma questo non è successo, il che ha costretto alcune di loro a trattenersi in Spagna, con tutte le difficoltà che ciò ha comportato, ancora maggiori visto che sono donne e non hanno i documenti in regola. È problematico anche il loro diritto all’intimità e alla sessualità. Infatti queste donne occupano i loro alloggi in tante, a volte anche in 12; viene loro richiesto di andare d’accordo per settimane e mesi con altre donne che non conoscono, e il minimo conflitto che sorge può provocarne l’espulsione da parte dei datori di lavoro. Restano lontane dai mariti per mesi e non possono far entrare uomini nei loro alloggi: ciò pone anche la questione della loro separazione dai figli e, per certune, dai mariti. Sono importanti anche i diritti sociali: queste lavoratrici non hanno diritto all’indennità di disoccupazione né alla pensione. Infine, è indispensabile che possano lavorare in condizioni dignitose, senza sfruttamento né molestie. Lottare contro le cattive condizioni di lavoro delle migranti marocchine in Spagna è importante perché significa anche lottare contro il razzismo, il sessismo e ogni altra forma di disuguaglianza sul posto di lavoro.