AGI – Erano stati presi alla sprovvista, i nazisti. Uno sciopero generale, a difesa degli ebrei di Amsterdam, convocato dopo il pogrom, i rastrellamenti e le prime deportazioni lanciate dal loro quartiere, completamente isolato dal resto della città, con tanto di filo spinato, chiusura di ponti mobili e i posti di blocco. Un atto di resistenza e di eroismo che prese di contropiede gli uomini delle SS e della Wehrmacht, con le fabbriche chiuse, i negozi che abbassarono le saracinesche, i ristoranti vuoti, il traffico fermo. E la protesta che finì per allargarsi ad altre città: Haarlem, Utrecht, Hilversum, Zaandam.
Era il 25 febbraio 1941. Sembrò l’inizio di una rivolta in tutto il Paese, occupato dalle truppe di Hitler in soli cinque giorni neanche nove mesi prima. Ad Amsterdam era stata una rapida e drammatica sequenza di eventi, in quel febbraio di ottant’anni fa, a portare allo sciopero.
Prima, il 12 febbraio, la ‘Ordnungspolizei’ aveva fatto irruzione nella gelateria Koco e alcuni agenti rimasero feriti, nei giorni seguenti seguirono altri atti di ostilità nei confronti della polizia tedesca. Infine la vendetta: una rappresaglia su larga scala, 425 uomini ebrei tra i 20 e i 35 anni letteralmente strappati dalle strade, arrestati e trascinati prima al campo di concentramento di Schoorl e da lì ai lager di Buchenwald. Di questi, 389 furono poi deportati a Mauthausen. Solo due riuscirono a sopravvivere. La maggior parte morì prima della fine dell’anno.
Quel che le forze delle SS e i collaborazionisti olandesi non avevano previsto era stata la reazione della città. A prendere l’iniziativa fu il partito comunista, che ovviamente era stato dichiarato fuori legge. Furono due militanti, Piet Nak e Willem Kran, a proporre lo sciopero durante una riunione al Noordermarkt convocata per il 24 febbraio, alla quale parteciparono anche membri dei sindacati. Vennero stampati dei volantini che invasero tutte le strade: a grandi lettere c’era scritto “Sciopero! Sciopero! Sciopero!” (“Staakt! Staakt! Staakt! in olandese), e poi “chiudiamo tutta la città di Amsterdam per un giorno”.
La mobilitazione fu sostenuta anche dal Fronte Marx-Lenin-Luxemburg, fondata da Henk Sneevliet, già sodale di Trotsky.
Il crescendo dello sciopero
Quel che segue è la narrazione di una delle più straordinarie storie di resistenza della Seconda guerra mondiale.
Lo sciopero del 25 febbraio iniziò con gli autisti dei tram ed il personale sanitario.
Seguirono i lavoratori del porto, poi tanta gente comune percorreva le strade suonando i campanelli delle biciclette e fermando il traffico.
Partecipò anche il personale delle scuole così come gli impiegati di società private, tra cui tra gli altri i grandi magazzini De Bijenkorf. Si calcola che almeno 300 mila persone abbiano partecipato allo sciopero. Il giorno dopo, la protesta si allargò ad altre zone vicine, da Utrecht al Kennemerland a Bussum.
La repressione fu immediata. Gli ultimi focolai della protesta vennero stroncati nel sangue nel giro di due giorni, finanche le granate vennero lanciate, quando non erano stati sufficienti i mitragliatori: morirono nove partecipanti allo sciopero, a decine rimasero gravemente feriti, ed entro i primi giorni di marzo furono arrestate e fucilate altre 18 persone.
Gli storici concordano: anche se la protesta era stata soffocata, il “Februaristaking” – lo “sciopero di febbraio”, come lo chiamano gli olandesi – rappresenta un giorno cruciale nella storia della Resistenza al nazi-fascismo: per la prima volta in un Paese occupato dai tedeschi la popolazione si era ribellata in modo compatto e deciso a sostegno della comunità ebraica.
Un evento, peraltro, a cui seguì lo sciopero studentesco del novembre 1941, e successivamente, quello dell’aprile-maggio 1943, a segnare l’inizio, nei Paesi Bassi, della resistenza armata su scala nazionale.
I non ebrei in piazza
Eppure quella Amsterdam è una storia particolare: non-ebrei scesi in strada a rischiare la vita a sostegno dei loro vicini di casa e concittadini ebrei.
Quella ebraica rappresentava a quel tempo il 10% della popolazione complessiva di Amsterdam, con circa 79 mila abitanti nel 1941, di cui circa 10 mila persone di origini straniere – tra questi Anne Frank e la sua famiglia - che qui avevano trovato rifugio negli anni trenta. Il fatto è che gli ebrei olandesi si erano trovati in un vicolo cieco, senza via di scampo: tutto congiurava contro di loro, compresa la geografia, chiusi dal mare a ovest e a nord, da una frontiera in comune con la Germania e un’altra con il Belgio occupato.
Dopo la capitolazione delle forze armate dei Paesi Bassi il 14 maggio 1940 (e dopo la fuga della regina Guglielmina dall’Aja alla volta di Londra), le prime misure antisemite prese dagli occupanti non si erano fatte attendere: prima gli ebrei furono esclusi dal servizio di difesa contraerea, poi toccò a tutti quelli che occupavano posizioni pubbliche ad essere rimossi d’ufficio, a cominciare ovviamente dalle università.
Ci furono tensioni e atti di sangue, con il Movimento nazional-socialista che lanciò provocazioni a non finire nei quartieri ebraici, a cui seguirono scontri armati tra il suo braccio armato – il ‘Weerbaarheidsafdeling’ – e i gruppi di autodifesa ebrei e i loro sostenitori.
Dai nazisti il terrore
Episodi a quali la risposta nazista fu il terrore, il pogrom e le prime deportazioni. All’indomani dello sciopero e dello scioglimento dell’intero consiglio comunale della città, la scelta di Hitler e delle SS fu la progressiva e sistematica organizzazione dell’annientamento.
Affidate le forze di polizia a Sybren Tulp, che aveva servito nell'esercito coloniale nelle Indie orientali olandesi - e che si dimostrò rapidamente un collaborazionista prezioso per il Fuehrer - si spalancarono le porte del genocidio, come nel resto dell’Europa: dall’aprile del 1942 gli ebrei olandesi furono costretti a portare la stella di David, tre mesi dopo iniziarono le deportazioni verso i campi di sterminio, a cominciare da Auschwitz-Birkenau e Sobibor.
Molti ebrei fecero il loro passaggio verso est – come Anne Frank - nel famigerato campo di transito di Westerbork.
Mentre i tedeschi confiscarono le proprietà lasciate dagli ebrei deportati (solo nel 1942 il contenuto di quasi 10 mila appartamenti ad Amsterdam venne espropriato e spedito in Germania), e dopo che circa 25 mila ebrei, compresi almeno 4.500 bambini, erano riusciti a nascondersi per evitare la deportazione (un terzo di questi ‘clandestini’ fu scoperto, arrestato e deportato), nel settembre del 1943 i tedeschi arrivarono a dichiarare Amsterdam una città “judenfrei”, ossia “libera dagli ebrei”. L’efficienza del genocidio non conosceva soste. Oltre tre quarti della comunità ebraica d’Olanda del 1940 non sopravvissero all’Olocausto.