AGI - Chi fa politica dovrebbe leggere con attenzione un libro intitolato "Massa e potere", capolavoro di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura. È un libro perfetto per sapere, per capire il sottosopra dell'America. Trump si è illuso di poter dominare la massa, ma se tu la inciti a combattere, questa bolla informe e in movimento ti prende alla lettera. E va a combattere, con l'irrazionalità che scorre nelle vene.E come insegna Canetti, la massa così caricata diventa una muta di lupi che va a caccia.
Scrive Canetti, sulla muta: "Un gruppo di uomini eccitati, il cui desiderio più intenso è essere di più". Realizzata la condizione dell'essere di più, arriva "la seconda forma di muta, che ha molto in comune con la muta di caccia e per alcuni aspetti coincide con essa, è la muta di guerra". Trump è rimasto incastrato nell'ingranaggio della muta.
I leader carismatici si illudono di poter plasmare la massa a loro piacimento e questa operazione a volte riesce, ma come il dritto ha sempre un rovescio: la massa diventa ingovernabile e finisce per possedere il politico.
La storia è piena di rivoluzionari mangiati dalla rivoluzione che hanno accarezzato e scatenato come un fulmine che scintilla dalla mano, il primo che mi viene in mente è forse anche il più illustre, Maximilien Francois Marie Isidore de Robespierre. Ghigliottinò mezza Parigi, fece condannare a morte Danton, seminò il Terrore e poi rotolò anche la sua testa.
Donald Trump non sarebbe né il primo né l'ultimo in questa serie di figure tragiche. Quello che è successo a Washington in fondo era un fatto annunciato: l'America è un paese devastato da una crisi prima di tutto culturale e poi politica.
Abbiamo raccontato in tanti articoli le "due Americhe" in rotta di collisione, questo è solo il primo dei bagliori, altro arriverà, perché la crisi è anche costituzionale, ha un sottotesto che parla di secessione, di idee che emergono a ondate negli Stati rossi e blu, oggi si parla di "Texit" per il Texas repubblicano, la stella solitaria, ieri di "Calexit" per la California, il castello democratico hi-tech raccontato da Michael Anton in "The States" come il prossimo modello (da incubo) in fase di "esportazione" in tutti gli Stati Uniti d'America.
Due Americhe, due mondi che non si parlano più e non trovano ragioni per andare avanti insieme. È un dramma titanico che non a caso tracima dalla cronaca alle pagine di storia nel momento in cui la Cina corre verso il primato globale. È il romanzo degli imperi che declinano e decollano.
Trump ha radunato la sua massa di fronte alla Casa Bianca e al Washington Monument, simboli di libertà, democrazia e potenza. Nel farlo aveva (e pare abbia ancora, a giudicare dalle sue dichiarazioni) un obiettivo politico: rompere con il Partito repubblicano - cosa che ha fatto, forse definitivamente - e mettere il primo mattone di un nuovo partito, la costruzione della leadership della "Red Nation".
Nel farlo, non avendo letto Canetti e non sapendo della fine di Robespierre, ha commesso il classico errore: sopravvalutare se stesso e sottovalutare la massa. Che puntualmente, all'innesco, è diventata una cosa in sé, direbbero i filosofi, un soggetto dotato di una incontenibile volonta' di potenza.
Facile liquidare tutto con il coperchio del "populismo", ma la realtà è che la politica contemporanea su Twitter è tutta populista e il risultato è che l'influencer è condannato a diventare follower delle pulsioni più primitive dei suoi fan (che hanno non a caso organizzato la manifestazione proprio sui social).
È la politica ridotta a dimensione virtuale che quando diventa reale assume forme drammatiche e grottesche nello stesso tempo. Basta dare un'occhiata alle immagini della rivolta che hanno fatto il giro del mondo: personaggi improbabili, tra un fumetto della Marvel, i Village People e una puntata di Fargo dei fratelli Cohen. L'America, senza alcun dubbio, "L'incubo ad aria condizionata" raccontato magistralmente in un libro di Henry Miller. Siamo arrivati alla fiction che genera la realtà, infatti Trump nasce in tv, era il protagonista di "Apprentice".
La preda era praticamente davanti alla massa, Capitol Hill, il Parlamento, il luogo dove deputati e senatori erano riuniti per certificare l'elezione di Joe Biden alla Casa Bianca. E' una storia finita che Trump vuole tenere aperta oltre ogni sceneggiatura possibile. Denuncia i brogli, ma non ha trovato ascolto presso la Corte Suprema, ha perso le elezioni e come dicono a Washington "a win is a win", una vittoria è una vittoria. E Biden, piaccia o meno, ha vinto.
Quattro anni fa fu Trump a vincere con grande sconcerto delle classi colte, oggi tocca a un altro. So bene che una larga parte degli elettori repubblicani pensa che ci siano stati dei brogli ed è chiaro, visti gli esiti, che il voto postale di massa è materiale da maneggiare con cura perché le elezioni hanno bisogno di uno scenario ampio, condiviso, sono l'atto supremo di un popolo che affida il proprio destino al metodo democratico. E quel popolo, almeno una volta, deve potersi guardare in faccia mentre sceglie i propri rappresentanti.
Le elezioni del Covid-19, come le ha chiamate Daniel Henninger in un eccezionale articolo tempo fa sul Wall Street Journal sono una distopia e la lezione del virus è che non può essere questo il new normal.
L'America è un paese a mano armata, il secondo emendamento è un pilastro della sua Costituzione, la nazione è stata costruita sì con l'ingegno, il duro lavoro e il capitale, ma con il conforto della Bibbia, il memento della forca e la parola della Colt. Non bisogna mai dimenticarlo, si corre il rischio di confondere Vienna con Detroit. E in queste ore molti commentatori dell'istante sono irrimediabilmente accomodati in un caffe' di Vienna.
L'America è un paese violento, gran parte dei suoi abitanti non ha il passaporto, tutto si misura in ordini di grandezza e di ricchezza, Midwest e Sun Belt sono mondi separati dalle metropoli costiere che guardano al Pacifico e all'Atlantico. Ma se attraversi il deserto del Mojave, i campi petroliferi del Texas e le distese di girasoli dell'Ohio, lo scenario è ben diverso da quello di "Colazione da Tiffany" e lo stesso Truman Capote per fortuna ci consegnò una descrizione desolante e cruenta dell'America nelle pagine di "A sangue freddo".
Splendore e miseria, omicidio e salvezza, tutto è custodito nella miniera inesauribile della letteratura americana. Che purtroppo pochi frequentano, anche dalle nostri parti, nella Vienna immaginaria del contemporaneo social-aperitivista. L'errore e l'orrore di Trump sono nella sua fissazione per il successo e il rifiuto della sconfitta come fatto naturale e spesso salutare, la cospirazione elevata a strumento di persuasione.
Una tragedia shakespeariana di streghe e profezie che si specchia dall'altra parte della barricata nell'ossessione della purezza che ti epura, al punto da far cadere la statua di Abramo Lincoln perche' ritenuto non adeguato allo standard di moralità dei liberal, l'uomo che mise fine allo schiavismo, tirato giù dal piedistallo. Un paese che non ama più i suoi simboli e li sostituisce con il ruggito dei leoni da tastiera. Benvenuti nel 2021, l'anno della guerra incivile americana.