AGI – Sette anni fa, fu una missione segreta a lanciare la carriera del giovane Jake Sullivan. L’uomo oggi scelto da Joe Biden come futuro consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti aveva appena 37 anni quando fu spedito dal presidente Barack Obama ad incontrare - lontano da ogni ufficialità e soprattutto dai riflettori – gli emissari del governo di Teheran per scandagliare le, allora ipotetiche, disponibilità iraniane ad imbastire quello che due anni dopo sarà l’accordo sul nucleare iraniano. Almeno cinque appuntamenti segreti, faccia a faccia, in Oman. A tutte le successive consultazioni ufficiali a Ginevra Sullivan era sempre presente, in qualità di membro della delegazione statunitense. E’ un episodio che la dice lunga sulla logica delle nomine annunciate dal presidente eletto.
Come il futuro segretario di Stato Antony Blinken, il giurista 44enne Sullivan durante la campagna elettorale è apparso spesso in televisione per enunciare quella che sarà la strategia degli Usa sullo scenario globale: mandata in soffitta l’“America First” trumpiana, torna prepotentemente la vocazione multilaterale degli Stati Uniti, dal tema dei cambiamenti climatici al rapporto con le Nazioni Unite, dal commercio internazionale agli accordi sugli armamenti, passando – appunto – anche dall’intesa sul nucleare iraniano, dal quale l’ex tycoon uscì unilateralmente nel 2018.
Quel che rimane è la contrapposizione con la Cina, anche se plausibilmente cambieranno i toni a cui ci aveva abituato il segretario di Stato uscente Mike Pompeo. In un articolo firmato insieme ad un altro obamiano di rango come Kurt Campbell per la rivista Foreign Affairs, Sullivan un anno fa aveva sottolineato che “seppure Washington su molte questioni rimane divisa, c’è consenso sul fatto che l’era del ‘fidanzamento’ con la Cina è giunta alla fine”. Di contro, il futuro consigliere alla sicurezza nazionale prevede “una coesistenza fatta di competizione e cooperazione” con Pechino.
Una carriera in rapidissima ascesa, quella di Sullivan: assolta la high school a Minneapolis – dove vinceva sistematicamente le gare di dibattiti – e compiuti gli studi di legge a Yale e a Harvard, oltre ad un passaggio in quel di Oxford, nonostante la giovane età il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale è considerato un veterano della cerchia ristretta del potere democratico: consulente di Hillary Clinton alle primarie del 2008, poi di Obama nella campagna presidenziale (preparava ambedue ai dibattiti), ha accompagnato Hillary in ben 112 Paesi del mondo negli anni in cui lei era segretario di Stato. E ancora: come consigliere per la sicurezza del vicepresidente Biden dal 2013 è stato uno di coloro che hanno plasmato la posizione Usa su dossier a dir poco scottanti come quelli della Libia, della Siria e, in subordine, del Myanmar.
In seguito ad un periodo come docente alla Yale Law School e un passaggio nella campagna di Hillary alle elezioni del 2016 (fu l’unico tra i principali “sussurratori” dell’allora candidata dem a suggerire che forse sarebbe stata “una buona idea” passare più tempo negli “swing states” del Midwest, che poi si rivelarono determinanti per la vittoria di Trump), il giurista è entrato nella Marco Advisory Partners, una società che si occupa consulenza di rischio strategico rivolta a aziende e investitori con ambizioni geopolitiche: quasi una forma di esilio durante l’era Trump, annota oggi qualche giornale.
Nondimeno, se c’è una cosa che gli viene unanimemente riconosciuta è l’esperienza: sullo scacchiere mediorientale, Sullivan ebbe un ruolo cruciale nei negoziati che portarono al cessate il fuoco di Gaza del 2012, così come contribuì in modo sostanziale alla dottrina del ‘ribilanciamento’ strategico nel Pacifico.
Non sorprende che a Washington in queste ore tutti ripetano quanto sia naturale associare il nome di Sullivan a quello di Tony Blinken, chiamato a guidare la diplomazia americana. Non solo perché le due nomine sembrano indicare che il tema delle relazioni internazionali sono una priorità dell’amministrazione Biden, ma anche perché ambedue vantano un rapporto strettissimo con l’uomo che il 20 gennaio ritornerà come presidente alla Casa Bianca: quando parlano loro due, il mondo sa che parlano a nome di Biden.
Ambedue vantano ottimi rapporti nel Vecchio Continente: Blinken è cresciuto in Francia, Sullivan ha studiato in Gran Bretagna. Il che non significa che non ci saranno dissidi transatlantici - a cominciare da quello sull’entità della spesa in seno alla Nato (un tormentone anche con Trump) - ma ci si aspetta che Biden e il suo staff indichino l’Unione europea come il proprio principale partner sullo scacchiere internazionale: in nome della stabilità, innanzitutto, della concertazione, delle alleanze possibili. E’ anche una questione di stile di governo: non a caso i giornali Usa oggi ricordano che Sullivan è uno degli artefici della politica della sicurezza ed estera di Obama, la cui strategia prevalente era quella dei toni morbidi: si è visto in Siria, così come nella crisi ucraina.
Toni troppo morbidi, secondo i critici. Il Times di Londra non ha dubbi sul significato delle nomine delle due nuove ‘teste d’ariete’ in quanto a politica estera nella Casa Bianca di Biden: “Sono un segnale rassicurante al mondo, a voler dimostrare che il presidente eletto rispetterà la sua promessa di ricostruire le alleanze dell’America”. Concetto ribadito dal futuro consigliere per la sicurezza nazionale in un articolo per The Atlantic: gli Stati Uniti ristabiliranno il proprio ruolo di leadership globale “con una rinnovata fede nel potere dei valori americani nel mondo”. Nelle stanze del potere di Pechino, Teheran, Mosca e Bruxelles si è già preso nota.