AGI - È l'ora di Mike Pompeo. Con un uno-due da lasciare storditi, il segretario di Stato annuncia prima la ripresa delle sanzioni contro l'Iran e - anche se è di qualche ora prima - rilancia su Twitter un lungo articolo in cui accusa Papa Francesco di mettere a repentaglio la sua autorità morale rinnovando l'accordo con la Cina sui vescovi. Ma chi è l'uomo che Teheran definisce "un falco", si fa immortalare mentre stringe la mano al leader nordcoreano, Kim Jong-un ed è universalmente considerato come il più fedele interprete del pensiero di Donald Trump sullo scenario internazionale? Le cose, guardando ad appena 4 anni fa, non sono sempre state così.
Il repubblicano di origini abruzzesi che vanta un legame stretto con il movimento dei Tea Party ha una storia politica così articolata che nel 2016 era annoverato tra gli avversari di Trump alle primarie. E la sua trasformazione in inossidabile alleato riflette in qualche modo il cambiamento che il partito repubblicano ha avuto nei confronti del presidente, e che è particolarmente visibile in queste settimane. L’attacco al Vaticano, accusato di indulgere nei rapporti con la Cina - grande nemico della Casa Bianca e "tema caldo" di questa campagna elettorale - segna un altro passo dell’asse anti-Pechino tra il segretario di Stato e il Presidente. Ma quattro anni fa, come per molti notabili del partito repubblicani, la situazione era diversa.
Nell’inverno del 2016, mentre Trump era impegnato nella sua corsa alle primarie repubblicane, Pompeo era impegnato a fermarlo a ogni costo. Rappresentante del Congresso arrivato da Wichita, Kansas, veterano dell’esercito, cresciuto in una famiglia operaia, rivelatosi un fervente conservatore con uno spiccato senso per la politica, il futuro segretario di Stato convinse Marco Rubio a candidarsi alle primarie per fermare l’ascesa del miliardario newyorkese, invitando pubblicamente gli elettori a diffidare da Trump, accusato di voler essere, “come Obama, un presidente autoritario che avrebbe ignorato la Costituzione”.
Il messaggio non venne raccolto: Rubio uscì subito di scena, il tycoon vinse le primarie e Pompeo decise di appoggiarlo ufficialmente, nonostante avesse ammesso in un’intervista alla Cnn di “non condividere molte delle sue idee”. Avendo servito nell’esercito in piena Guerra Fredda, Pompeo non aveva gradito neanche lo slogan “America First”, convinto, invece, che gli Stati Uniti dovessero mantenere un ruolo di equilibratore del mondo in nome della stabilità internazionale. Nonostante questo, Pompeo non esitò a cercare un posto nell’amministrazione, ottenendo nel 2017 l’incarico di direttore della Cia.
Trump non gli aveva serbato rancore e questo ha finito, apparentemente, per renderlo un alleato riconoscente e fedele. Appena un anno dopo, silurato il segretario di Stato Rex Tillerson, il presidente gli affidò la guida della diplomazia americana. Questo ruolo ha portato Pompeo, spesso, in aperto conflitto con la Cina, ma è la sua formazione di cristiano evangelico ad avergli dato la spinta per andare allo scontro frontale con Pechino e il Vaticano. Non sorprende: sul tavolo del suo ufficio il ministro degli Esteri americano ha sempre la Bibbia. In passato ha descritto Trump come un uomo “guidato da Dio”, una moderna "regina Ester", la figura biblica che convinse il re di Persia a risparmiare il popolo ebraico.
Laureato in Ingegneria gestionale all'accademia militare di West Point nel 1986, dopo una breve carriera militare chiusa con il grado di capitano, nel 1994 si laureò in legge ad Harvard. Come segretario di Stato il suo marchio è ben visibile, a cominciare dal dossier nordcoreano: già da direttore della Cia era coinvolto nella politica nordcoreana dell'amministrazione Trump, e da capo della diplomazia fu lui a condurre le trattative con Pyongyang sul suo programma missilistico nucleare, tanto da visitare ben due volte la capitale nordcoreana, incontrando anche Kim Jong-un. Nell'occasione, va detto, riuscì anche a riportare negli Usa tre cittadini americani di origini coreane detenuti dal regime di Pyongyang. Allo stesso modo è stato Pompeo, con vari incontri a New York con il vicepresidente del partito del lavoro, Kim Yong Chol, a preparare il summit tra Trump e Kim.
Per quel che riguarda l'accordo sul nucleare iraniano - proprio ieri ha annunciato, unilateralmente, il ripristino delle sanzioni dell'Onu contro l'Iran - certo Pompeo non ha mai dissimulato il suo punto di vista: "Sono molto contento di buttare giù questo accordo disastroso con lo sponsor del terrorismo più grande al mondo". Il suo impegno per mettere fine all'intesa internazionale sottoscritta nel 2015, e abbandonata dagli Usa nel 2018, è stato inesausto, tanto da cercare di imporre un braccio di ferro in seno al Consiglio di sicurezza dell'Onu allo scopo di impedire una proroga dell'accordo. Anche sull'Iran la sua posizione è stata, a dir poco, tagliente: piuttosto che trattare con Teheran, ebbe a dire, "è meglio distruggere tutte le capacità nucleare iraniane".