AGI - La tensione tra Cina e Taiwan torna a crescere e a mostrare i limiti della relazione tra i due lati dello Stretto, sotto gli occhi di Washington, che guarda con attenzione all’isola di 23 milioni di abitanti. Pechino rivendica Taiwan come parte del proprio territorio in base al principio dell’"unica Cina", che non è riconosciuto oggi da Taipei, e sulla cui interpretazione l’isola ha sempre sottolineato la divergenza con la Cina.
Durante la visita di questi giorni del sottosegretario agli Affari economici del Dipartimento di Stato Usa Keith Krach, il ministero della Difesa di Taiwan ha confermato incursioni nel proprio spazio aereo di 18 aerei militari cinesi e ha alzato in risposta i propri caccia: “Spacconate militari” della Cina, le ha definite il capo della diplomazia Usa, Mike Pompeo, ma Pechino, irritata dalla visita di Krach, ha lanciato esercizi militari nelle acque dello Stretto. Oggi Krach ha partecipato a Taipei ai funerali dell'ex presidente di Taiwan Lee Teng-hui, con l'attuale presidente Tsai Ing-wen.
Il confronto è fra autoritarismo e democrazia
Il confronto assume contorni sempre più ideologici: Taiwan si presenta come baluardo della democrazia, che resiste all'autoritarismo della Repubblica popolare cinese, e si appella alle democrazie mondiali. “Sicuramente la dicotomia autoritarismo-democrazia funziona benissimo, è poi è una realtà”, ha detto all’Agi Stefano Pelaggi, docente presso l’Università La Sapienza di Roma e research fellow presso il Taiwan Center for International Strategic Studies. Taiwan, prosegue, “è uno dei pochi casi in cui il sistema di rappresentanza è diventato parte dell’identità nazionale, cosa abbastanza inusuale”. Andando più a fondo, il rapporto tra Taipei e Pechino prevede, però, anche un’interdipendenza economica, con un milione mezzo di taiwanesi che vivono permanentemente in Cina, e diverse aziende.
“Non hanno numeri alti, ma sono rilevanti, come Foxconn. Non è, quindi, una relazione tra Davide e Golia”, commenta l’accademico, ma piuttosto una situazione di stallo in cui “nessuna delle parti può fare un passo indietro, ma neppure un passo avanti". I rischi, prevede, “sarebbero enormi: Taiwan ha un esercito di tutto riguardo, che non può competere con l’Esercito di Liberazione Popolare cinese, ma è altamente competitivo”.
L’isola, in caso di invasione cinese, dovrebbe essere conquistata “metro su metro”. Anche negli episodi di tensione più alta - come gli sconfinamenti degli spazi aerei da parte di caccia cinesi - appare esserci sempre “una sorta di misura, un’estrema attenzione a quello che succede, ma mai la volontà di cambiare lo status quo”.
Il sostegno degli Usa non è mai stato tanto forte
L’ipotesi estrema del ricorso all’uso della forza, che trapela in articoli pubblicati dalla stampa più nazionalista di Pechino, troverebbe l’opposizione degli Stati Uniti. “Il sostegno a favore di Taiwan non è mai stato così forte come in questi anni a Washington”, afferma Pelaggi. “Bisogna tornare a prima degli anni Settanta per vedere un supporto così bipartisan, perché anche il Partito democratico non ha mai segnalato un’incrinatura in questi anni”. Senza contare che il processo di “taiwanizzazione” dell'isola è ormai in fase molto avanzata, e solo una piccola parte dei cittadini di Taiwan, “hard-liner” li definisce lo studioso della Sapienza, oggi si riconosce come cinese.
“L’allontanamento da Pechino è ormai segnato”, conclude Pelaggi. “Questa dimensione ha creato condizioni che rendono praticamente impossibile il processo che Pechino pensava. Avrebbero dovuto farlo dieci anni fa, ma la Cina di dieci anni fa non poteva permettersi di farlo: è stato perso il treno, e anche a Pechino sanno che non c’è modo di portarlo indietro”.