AGI - Sono passati due anni da quando l'attivista italiana per i diritti delle donne oppresse, Cristina Cattafesta, fu arrestata in Turchia, mentre faceva parte di una delegazione internazionale che vigilava sullo svolgimento delle elezioni politiche. Nonostante i lunghi periodi passati in Afghanistan e altri Paesi di cui denunciava le disuguaglianze e le difficili condizioni in cui vivono le donne, l’esperienza turca, un paio di settimane in carcere, l’aveva particolarmente impressionata. Al rientro a Milano, aveva scritto all’AGI, combattiva come sempre: “Ora, da libera, sto benissimo. Ma sono incazzata per come vengono trattate le persone in quel maledetto Centro di Detenzione ed Espulsione di Gaziantep”.
Aveva chiesto di aspettare un po' di tempo, prima di essere intervistata sulla sua esperienza. Le serviva, aveva detto sorridendo, perché “mille o forse più persone meritano un ringraziamento personale”, per la solidarietà e il supporto che avevano portato alla sua liberazione. Conoscendola, sicuramente è riuscita a ringraziare tutti, ma ora, due anni dopo, a 64 anni, la fondatrice del Cisda è stata portata via in poco tempo e per sempre da una malattia fulminante, lasciando fra le altre preziose eredità collettive il ricordo del suo bellissimo sorriso e di una voce resa roca dalle troppe sigarette.
Cristina Cattafesta era una paladina delle battaglie delle donne in tutto il mondo, ma soprattutto nei paesi in cui la religione le ha negli ultimi decenni riportate a una subordinazione dagli uomini che si dava per scontato fosse in via di superamento. Per l’Afghanistan aveva una particolare predilezione: nel 1999, in piena era talebana, aveva fondato il Cisda, il Coordinamento italiano per il sostegno alle donne afghane, obbligate dai detentori del potere a indossare quel burka che non lascia scoperti nemmeno gli occhi ed è diventato il simbolo della sottomissione. Cinque anni dopo, l'associazione ha sposato anche la causa della resistenza curda. Ma l’attivista era impegnata anche nei paesi arabi e del Maghreb, oltre che in Turchia, nelle cui galere ha trascorso le due settimane più angoscianti, fra giugno e luglio 2018.
Ovunque aveva creato reti di donne che sosteneva da lontano e anche in loco, e in tutti questi paesi era considerata un punto di riferimento e di speranza per il futuro, ma anche un’amica sulla quale contare per un consiglio, un appoggio e una chiacchierata. Era simpatica e divertente e tendeva a sdrammatizzare anche le situazioni più difficili. Una volta rispose così a chi le chiedeva quale fosse stato il momento più difficile della sua vita politica: “Quando Said, portavoce del Partito Afghano della Solidarietà - Hezb-e-Hambastagi - in manifestazione con noi a Milano sui diritti delle donne, mi ha chiesto di tradurgli un cartello che recitava ‘io la patata la uso solo per cucinare’”. Un’altra volta raccontò dall’Afghanistan di aver assistito allo scambio fra una giornalista americana e una donna che camminava 5 passi dietro al marito. “Perché sembra contenta?” le aveva chiesto la giornalista. “Perché ci troviamo su un campo minato!”, aveva risposto la signora afghana, sorridendo con gli occhi che si intravvedevano dietro la retina del burka. La morale della storia, aveva concluso, è che “dietro a ogni uomo c’è una donna brillante”.
La sua scomparsa improvvisa è stata celebrata dalle donne del Cisda con un commosso saluto sulla homepage del sito dell’Ong, che conclude così: “Ci lasci, in un tempo sospeso, con un’eredità collettiva immensa: ci impegneremo a custodirla, strette intorno alla tua presenza indelebile, alla tua mancanza incolmabile. Abbracciamo forte le sorelle e il compagno Edoardo”.