Non c'è pandemia che tenga: a Tripoli, capitale della Libia, si combatte come prima. E più di prima.
Il sedicente Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar, impegnato da ormai oltre un anno in un'offensiva su Tripoli, aveva cercato di soffocare ancora di più la città tagliando, oltre al petrolio, anche acqua ed elettricità.
Per oltre una settimana oltre due milioni di persone sono rimaste senza acqua potabile nelle abitazioni.
Per tutta risposta, le milizie del Governo di accordo nazionale, guidato dal premier Fayez al Serraj, riconosciuto dall'Onu e militarmente sostenuto in prima linea dalla Turchia, hanno lanciato "l'Operazione tempesta di pace" per respingere gli uomini di Haftar che assediavano la capitale.
In meno di una settimana, Serraj - da sempre dato per sfavorito sul campo militare - ha ripreso il controllo di sei località, tra cui Sabrata e altre importanti centri sulla costa a est, tra cui Surman e Al Ajaylat, cacciando di fatto i combattenti della Cirenaica dal fronte orientale.
Ora la battaglia si è spostata a sud e quella decisiva si sta combattendo in queste ore a Tarhuna, a 80 chilometri a sud-est di Tripoli, ritenuta base di lancio degli attacchi contro la capitale nonché principale accampamento degli uomini di Haftar e punto vitale per la fornitura di armi e mezzi, che arrivano dalla Libia centrale.
Il portavoce delle forze del Governo di accordo nazionale, Muhammad Qanunu, ha già dato notizia della conquista di alcune aree nella periferia di Tarhuna. Almeno una decina di combattenti si sarebbe già arresa.
Sull'altra linea del fronte, gli uomini di Haftar ovviamente smentiscono e sostengono di aver respinto l'attacco e catturato 25 miliziani. Sono tuttavia oggettive le difficoltà dell'armata, improvvisata, della Cirenaica: si è arenata da oltre in un anno in quello che doveva essere un intervento lampo per unificare militarmente il Paese sotto il pugno del maresciallo Haftar.
Non basta evidentemente il sostegno esterno assicurato per lo più dai mercenari russi, di cui almeno due sono caduti in battaglia la scorsa settimana, e dai mercenari del Sudan, i Janjawid, già accusati di crimini di guerra per i massacri compiuti nel Darfur.
Così come sembra non rendere l'appoggio aereo, e di armamenti, fornito dagli Emirati. Anche perché, considerando che la missione europea Irene, che dovrebbe controllare l'embargo delle armi sulla Libia, stenta a decollare, la Libia continua a essere ben rifornita.
Lo dimostrano non solo i droni turchi, molti abbattuti in azione, ma anche le nuove dotazioni sequestrate nelle ultime basi strappate dalle milizie di Tripoli all'esercito cirenaico.
A pagare il prezzo più caro sono ancora loro, i civili. Dall'inizio dell'offensiva, sono morte quasi 1.700 persone, oltre 150 solo nell'ultima settimana, e circa 17 mila sono state ferite.
Oltre 200 mila costrette a fuggire dalla proprie abitazioni per diventare sfollati interni. Sono state distrutti scuole e ospedali.
E ora con la pandemia di Covid-19 la loro vita si fa ancora più difficile, tra quarantene e coprifuochi. Le strutture sanitarie sono quasi inesistenti e assolutamente inadatte ad affrontare un'epidemia potenzialmente catastrofica. Anche per questo era stato unanime l'appello della comunità internazionale per una tregua umanitaria. Un appello rimasto inascoltato, come tanti altri arrivati prima.