La Corea del Sud emerge come un modello a sè nel contrasto all’epidemia di coronavirus, un modello alternativo alle misure messe in campo dalla Cina e fondato su una combinazione di trasparenza, utilizzo delle nuove tecnologie e test a tappeto per evitare il contagio, nonostante sia ancora lontano il momento in cui possa dirsi risolta l’emergenza.
Seul ha fatto tesoro dell’esperienza nella lotta contro l’epidemia di Mers (la sindrome respiratoria acuta del Medio Oriente) che provocò la morte di 38 persone e circa duecento contagi. Nel 2015, quando si verificarono i casi di Mers nel Paese asiatico, il Korea Centers for Disease Control and Prevention si trovò spiazzato, e non in grado soddisfare le domanda di kit per il test sulle persone contagiate, con il risultato che molti malati passavano di ospedale in ospedale in cerca di assistenza, aumentando il numero di persone contagiate.
L’emergenza di allora ha portato a nuove leggi per fronteggiare rapidamente l’eventuale arrivo di una nuova epidemia, eliminando una serie di passaggi burocratici. Già l’anno successivo, il 2016, la Corea del Sud potè testare l’efficacia del sistema in vigore oggi, su una scala molto minore di quella attuale, durante l’epidemia di Zika.
Il Paese asiatico conta oggi il maggiore numero di contagi in Asia - 8.326 con 75 morti - al di fuori della Cina, ed è stato tra i primi Paesi a verificare casi accertati, già a gennaio scorso. Attraverso la collaborazione degli enti statali, dei laboratori privati e delle aziende produttrici è riuscito, però, in poco tempo, a mettere in piedi un sistema in grado di fronteggiare l’epidemia, nonostante i cluster di contagi che si verificano nel Paese.
Stazioni mobili per il test, visite nelle abitazioni, e punti di controllo in strada, agli automobilisti, hanno contribuito al successo del modello nazionale. La Corea del Sud è il Paese che ha fatto il maggiore numero di test rispetto al totale della popolazione, superando quota 240 mila in un mese e mezzo.
Il tempo impiegato per i test è di circa dieci minuti e riduce al minimo l’esposizione agli operatori sanitari e agli altri pazienti, al contrario di quanto avverrebbe in un’ospedale o in una clinica.
Un grosso aiuto nella lotta al coronavirus è poi arrivato dalla tecnologia e dai Big Data, con la diffusione di app che permettono di localizzare aree o edifici dove si trovano persone contagiate: proprio quando i dati sui nuovi contagi subivano un’impennata, una app chiamata “Corona 100m”, ha avuto un boom di download sugli smartphone dei sud-coreani.
Questo tipo di app, sviluppate anche in Cina, e un sistema centralizzato che rende pubblici movimenti e transazioni dei cittadini affetti da coronavirus tramite tecnologia Gps e telecamere di sorveglianza hanno generato perplessità sul rispetto della privacy, ma i funzionari sud-coreani non nascondono un certo orgoglio per il sistema in atto che permette ai cittadini di sapere se sono stati in contatto con persone che hanno contratto la nuova malattia.
Il modello sud-coreano viene guardato con attenzione non solo dai Paesi europei, ma anche dagli Stati Uniti, il cui sistema di test sta già mostrando i limiti, secondo quanto ammesso dal direttore del National Institute of Allergy and Infectious Disease, Anthony Fauci.
Il presidente sud-coreano, Moon Jae-in, ha espresso ottimismo sulla situazione. “A meno di sviluppi inaspettati, ci aspettiamo che questo trend guadagni slancio”, ha detto oggi Moon. “La nostra fiducia nel superare il Covid-19 cresce”.
A creare grattacapi è però il riemergere di cluster di contagi. L’ultimo caso a imporsi all’attenzione è quello di un picco di malati tra i membri di un culto religioso, in un’area a sud-ovest di Seul: quaranta seguaci della chiesa “Fiume di Grazia”, compresi il pastore e la moglie, sono risultati positivi al Covid-19 dopo due funzioni tenutesi il primo e l’8 marzo scorsi, nonostante il divieto di assembramenti. Assieme ai quaranta fedeli contagiati, anche altri sei loro contatti risultano positivi al test per il coronavirus.
Il caso riporta alla memoria, su scala minore, il picco di contagi del mese scorso tra i seguaci del culto Shincheonji, che ha fatto impennare il numero degli ammalati nel Paese, fino alla vetta toccata il 29 febbraio, quando la Corea del Sud registrò 909 nuovi casi in un solo giorno.
La settimana scorsa, si era verificato un altro picco di contagi tra i dipendenti di un call center in un’area a sud-ovest di Seul, destando allarme tra le autorità.
Il sistema di test a tappeto e l’utilizzo dei big data per rintracciare i contatti, ha però evitato un ritorno di fiamma dell'infezione, facendo tirare un sospiro di sollievo alle autorità della capitale. “Per tre giorni consecutivi abbiamo visto un numero maggiore di pazienti dimessi che di nuovi contagi”, ha dichiarato il vice ministro della Sanità, Kim Gang-lip, “ma non dobbiamo dimenticare le lezioni che abbiamo appreso”.