Dai sistemi di tracciamento digitali dei coreani alla scelta di Boris Johnson di non voler fare nulla per contrastare la diffusione del virus, passando per le quarantene militarizzate dei cinesi e per quelle con le suonate dai balconi degli italiani, la reazione dei diversi paesi al coronavirus sta mostrando una serie di approcci molto diversi tra loro che si possono spiegare anche considerando le diverse attitudini culturali e politiche dei paesi interessati.
Il coronavirus sta infatti mostrando i limiti dei nostri sistemi politici, delle nostre libertà e sta mostrando in maniera plastica a quanto le nostre società sono disponibili a rinunciare in cambio della sicurezza. Dall’estremo del regime comunista da un parte, in cui in nome della lotta al virus sono state letteralmente militarizzate intere regioni e ai cittadini è stato intimato l’isolamento a fronte di un sistema sanzionatorio durissimo, a quello opposto del Regno Unito, patria dell’Habeas Corpus e della Magna Charta che preferisce affrontare il virus pur di rinunciare a una sola delle sue consolidate libertà. In mezzo la Corea del Sud con la sua democrazia tecnologica e l’Italia che, davanti alla minaccia del virus, ha chiesto di essere messa in quarantena.
In questo tipo di reazioni si individuano almeno quattro modelli differenti.
Il modello cinese
In parte abbiamo lo seguito anche noi in Italia, dove le autorità, dopo un primo periodo di sbandamento, hanno avuto una reazione imperiosa che ha portato prima all’isolamento di Wuhan, una metropoli da undici milioni di abitanti e polo industriale di primaria importanza per il settore dell’automotive globale, e poi l’intera provincia dell’Hebei con tutti i suoi 56 milioni di abitanti. Le considerazioni che hanno spinto il governo di Pechino a stringere in maniera così forte e decisa non sono state solo di carattere sanitario.
La Cina infatti sapeva che nella gestione del coronavirus si sarebbe giocata gran parte della solida reputazione che, nel corso degli anni ha costruito con abilità e con diplomazia. Davanti alla sfida della sicurezza globale legata al rischio che il nuovo coronavirus potesse diffondersi nel mondo come era già avvenuto nel 2003 con la Sars, il governo di Pechino non ha mancato di far sfoggio agli occhi del mondo di tutta la sua potenza, economica, scientifica, organizzativa, logistica, tecnologica e persino militare. Tutti siamo rimasti meravigliati dalla capacità messa in campo di far fronte all’epidemia.
Nessuno al mondo aveva mai costruito un ospedale da mille posti letto in soli tre giorni. La reazione è stata da grande potenza, così come la Cina vuole apparire anche se, con il coronavirus ormai in fase pandemica, i risultati sono stati discutibili. Il focolaio di Wuhan è spento, ma nel mondo ce ne sono ormai troppi ad essere accesi.
Il modello italiano
È stato almeno sotto il profilo sanitario simile a quello cinese, anche se, è stato decisamente meno autoritario e più partecipato: la decisione di estendere la zona rossa a tutto il paese è stata infatti richiesta dalla stessa opposizione e le misure adottate sono state poi, diluite da una serie di provvedimenti e deroghe in pieno stile italico.
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Il modello coreano
Completamente diverso, l’approccio dei coreani al Covid-19. La patria dei telefonini Samsung non poteva non mettere in campo la sua tecnologia per far fronte a questa minaccia. E i risultati sono stati davvero significativamente incoraggianti. Il governo coreano ha deciso infatti di non adottare misure di contenimento come in Cina e come in Italia, ma di tracciamento e profilazione dei soggetti infetti. E per farlo non hanno esitato ad utilizzare insieme a una campagna a tappeto di screening biologico (tamponi), proprio le tecnologie digitali. La strategia coreana ha puntato essenzialmente su una campagna di identificazione di tutti i soggetti venuti in contatto con il virus e di contenimento selettivo delle persone invece che delle città come in Cina o in Italia.
Il modello britannico
Radicalmente opposta all’approccio cinese e senza voler cadere nel rischio di una deriva orwelliana, la scelta del Premier Britannico Boris Johnson che, in un discorso destinato a rimanere nei libri di storia, ha annunciato ai sudditi di Sua Maestà che il governo non avrebbe fatto assolutamente nulla per provare a contrastare il virus e che le famiglie avrebbero dovuto prepararsi ad avere dei lutti. Impensabile per un governo, soprattutto per un governo conservatore pensare di costringere i sudditi a interventi coercitivi come quelli imposti in Cina.
Men che meno invadere la privacy per avviare campagne di contact tracing in stile coreano. Meglio affrontare il virus e confidare che dopo una prima ondata con un elevato numero di decessi la popolazione possa sviluppare da sola gli anticorpi per tenere sotto controllo l’infezione. Il governo e con lui gli inglesi hanno insomma scelto di condividere il rischio invece di arroccarsi alla ricerca di una sicurezza, che, vista la diffusione del virus in tutto il mondo, potrebbe anche non essere così certa.