Lo smartphone nella mano sinistra, la bomboletta spray in quella destra. Assil Diab lavora così: volta la testa da una parte e guarda una foto, la gira dall’altra e la riproduce su un muro. Un’istantanea di là, sulla schermo piatto, sul quale basta scorrere il dito per far sparire un’immagine; un graffito di qua, fissato sui mattoni, sull’intonaco di una parete. Non per sempre – perché “non penso che la street art sia fatta per durare in eterno” - ma almeno il tempo per cambiare qualcosa.
Assil Diab è una ragazza di trent’anni, è nata in Romania e vive in Qatar, ma ha origini sudanesi. E sui muri della capitale, Khartoum, disegna i volti di ragazzi morti, uccisi dalle forze di sicurezza perché manifestavano, perché incarnavano la Rivoluzione.
Quella nata a dicembre 2018 contro il regime del presidente Omar al-Bashir, e poi proseguita contro i militari che, ad aprile, con un colpo di stato si sono impossessati del potere. “Disegnare sui muri aiuta noi a ricordare che questi martiri sono scesi in piazza per protestare anche in nostro nome. Ai militari dimostra invece che hanno ucciso soltanto una piccola parte del movimento”, racconta all’Agi la street artist sudanese.
Perché pensa che un graffito su un muro serva?
Perché vedere il volto di una persona morta disegnato su un muro costringe le persone a parlare di ciò che sta succedendo attorno a loro. Io disegno i martiri sui muri delle case in cui vivevano: ogni graffito funziona come un punto di riferimento, le persone che lo vedono sanno che cosa è successo, vanno a trovare i parenti, ci parlano e offrono loro supporto dal punto di vista umano e magari anche economico.
Quando ha cominciato c’era ancora Bashir. Perché l’ha fatto?
Era dicembre, mi trovavo in Qatar e alla televisione ho visto le immagini delle proteste. Ho pensato che sarebbero durate pochi giorni, e invece a fine mese le manifestazioni erano sempre più numerose. In quel momento ho deciso che avrei dovuto farne parte, così a metà gennaio sono partita per il Sudan.
Una volta arrivata a Khartoum…
Una volta arrivata a Khartoum ho pensato che non ce l’avrei fatta, che ero bloccata: c’erano milizie a ogni angolo. Continuavo a sentire storie di ragazzi giovanissimi uccisi, un dolore grande, e in quel momento volevo soltanto che la loro memoria continuasse a vivere.
Qual è stato il primo murale che ha fatto?
Quello di Babiker Abdelhameed Salama, a Kafoori nel quartiere nord di Khartoum. Pensavo che il luogo più sicuro dove disegnare fosse casa sua, ma l’abitazione era proprio su un grande viale, molto trafficato, e non lontano da una delle residenze di Bashir. Una vicinanza che significava una cosa sola: che l’area era sorvegliata. Appena finito di disegnare mi sono messa in posa per una foto insieme alle sorelle di Babiker, ma un uomo è saltato giù da un pick-up e ha cominciato a colpire con un bastone il fotografo. Poi ha visto noi, le sorelle della vittima ed io.
Vi ha picchiate?
Le sorelle sono riuscite a rientrare in casa, io sono corsa in macchina. Ci hanno inseguiti per un quarto d’ora, poi il ragazzo che guidava è riuscito a seminarli. Quando più tardi siamo tornati dove avevo dipinto, abbiamo incontrato il cugino di Babiker. Gli avevano spezzato le dita: era uscito per raccogliere le bombolette che avevo lasciato in terra scappando.
Come ha reagito la gente comune ai primi murales?
Quando ho cominciato a gennaio non c’era una vera scena di street artist in Sudan. A dire il vero la gente non capiva il senso dei graffiti, le potenzialità. L’ho dovuto spiegare alle famiglie delle vittime: oggi sono quasi sempre d’accordo, sono loro stesse che desiderano che io disegni sui muri di casa loro. Mi invitano a mangiare insieme, mettono delle sedie davanti al murale e chi passeggia si ferma a guardare, a pensare, a parlare. Ecco, quando sento la gente parlare di quello che accade in Sudan, della rivoluzione e della situazione attuale, è in quel momento che penso che il mio lavoro sia finito.
Dopo il colpo di stato, da metà maggio in poi, ci sono stati importanti sit-in di protesta davanti alla sede dei militari.
Disegnavamo ovunque: sui muri, sull’asfalto, sulle sedie, su qualsiasi superficie. Ai sit-in davanti al quartier generale dei militari tutto era un enorme murale, un modo di ricordare costantemente le violenza, gli stupri, le uccisione, le ingiustizie subite in tutto il Sudan. E anche la maniera per celebrare le nostre vittorie contro il regime. Ma i militari hanno cancellato tutto, ogni segno di quei giorni. Persino sui pali della luce: ridipinti anche loro.
I suoi graffiti però sono rimasti.
Ne ho fatti una trentina, all’incirca, e ne hanno cancellato uno soltanto, quello di Omer Shuaibs. Penso che le forze di sicurezza non li abbiano rimossi perché anche fuori da Khartoum, grazie alle foto e a internet, si è diffusa l’eco dei miei disegni: si sono resi conto anche loro che cancellarli avrebbe soltanto alimentato la rabbia e fatto scendere in piazza ancora più manifestanti. Una volta una madre mi ha detto: “Hanno portato via da questa terra mio figlio, li sfido a prendersi anche il suo ricordo”.
La Rivoluzione finirà con la firma di un accordo tra civili e militari?
La Rivoluzione non finirà mai: anche quando il Sudan sarà una democrazia, ci saranno da combattere vincoli culturali e mentalità retrograde. Da artista donna ho subito molestie sia nelle strade che online. La battaglia di ogni giorno non è soltanto contro il regime, ma anche contro la nostra stessa società: chiusa in status sociali, legata alla religione, alle tribù. Una società che contraddice se stessa e quello che fa. Vorrei che i nostri cervelli si azzerassero e venissero riprogrammati: abbiamo tanto da imparare quando si parla di tollera