Come conseguenza del riscaldamento globale, i suoli perennemente ghiacciati dell’Artico si stanno scongelando e rilasciano sostanze altamente tossiche e inquinanti, contenute nei fossili risalenti all’era del Pleistocene. È quanto emerge da una ricerca di Sue Natali, membro del ‘Woods Hole Research Center’ nel Massachusetts, portata avanti dalla Siberia all’Alaska per studiare gli effetti dello scongelamento del permafrost, il terreno tipico delle regioni dell'estremo Nord Europa, della Siberia e dell'America settentrionale.
Sotto lo strato di ghiaccio che si sta scongelando affiorano i segreti avvelenati del passato, tra cui una quantità stimata di 15 milioni di tonnellate di carbonio, due volte di più rispetto a quello contenuto nell’atmosfera e tre volte rispetto a quello stoccato nelle foreste mondiali. A questa si aggiungono ingenti quantità di metano, antrace, mercurio tossico, scorie nucleari e altri antichi veleni.
A preoccupare maggiormente la ricercatrice è proprio questo “ordigno di carbonio” contenuto nei terreni dell’Artico in corso di scongelamento: un 10% della quantità in essi contenuti rappresentano tra 130 e 150 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2, pari a quelle che emetteranno gli Stati Uniti da qui al 2100. Così lo scioglimento del permagelo dell’Artico introduce nella classifica mondiale un nuovo Stato, al secondo posto tra i Paesi maggiormente inquinanti. Un ingente quantitativo di carbonio che per giunta non è stato preso in considerazioni nel livello globale di emissioni da rispettare per contenere il riscaldamento globale sotto la soglia dei due gradi Celsius.
I tempi sono stretti: per la Natali i suoli perennemente ghiacciati del’Artico potrebbero sciogliersi dal 30 al 70% già prima del 2100, in base agli sforzi attuati o meno per arginare il riscaldamento globale. “Se continuiamo a bruciare combustibili fossili al ritmo attuale il 70% sarà la norma mentre se riduciamo le nostre emissioni si può puntare al 30%. Ad ogni modo nel quantitativo di suolo scongelato il carbonio rinchiuso nella materia organica comincerà ad essere rotto dai microbi che rilasceranno emissioni di CO2 o metano” avverte la ricercatrice.
"In alcune aree dell’Alaska artico è come sorvolare un formaggio svizzero fatto di terreni e laghi formati da suoli collassati. All’interno di questi stagni, liquidi che stanno bollendo con all’interno metano e altre sostanze pericolose” ha raccontato al ritorno di una delle sue numerose spedizioni.
Al di là delle emissioni inquinanti, le ricerche evidenziano che l’aumento delle temperature nel circolo Artico riporterà a galla anche ingenti quantità di microplastiche – il doppio rispetto a quelle contenute in tutti gli oceani del mondo – oltre a 1,6 milioni di tonnellate di mercurio che entreranno nuovamente nella catena alimentare.
Il precedente della peste siberiana
Come conseguenza di temperature più miti sta anche aumentando la prevalenza di virus e patologie, che già colpiscono alcune specie animali, tra cui la renna, ammalandosi con maggiore frequenza rispetto al passato. Lo stesso vale per malattie letali per l’uomo: nel 2016 pastori nomadi di renne si sono misteriosamente ammalati, facendo temere il ritorno della “peste siberiana”, scomparsa dal 1941.
La causa era l’antrace, come conseguenza dello scongelamento di una carcassa di renna rimasta vittima della malattia 75 anni prima. Altri virus imprigionati nel ghiaccio per decenni e secoli tornano a manifestarsi: peste, influenza spagnola e vaiolo sono già stati identificati da varie ricerche.
Inoltre l’umanità rischia di vedere scomparire circa 180 mila siti archeologici di cui molti non sono ancora stati esplorati, finora preservati dallo strato di ghiaccio. Tra questi c’è il Palaeo-Eskimo nel in Groenlandia, rimasto intatto per 4 mila anni e ora a rischio crollo a causa del rapido scioglimento del permagelo.