Questi i fatti: l'ambasciatore italiano ad Ankara, Massimo Gaiani, è stato convocato l’altro giorno al ministero degli Esteri turco. Qui gli hanno espresso il "dispiacere" del governo di Recep Taypp Erdogan (la terminologia non tragga in inganno: “dispiacere” vuol dire “ci sentiamo traditi da voi”) per via di una mozione parlamentare presentata a Roma, alla Camera dei Deputati.
Nella mozione si chiede quanto segue: il governo si impegni a "riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale".
L’Italia, infatti, non è tra le 29 nazioni che hanno formalmente definito un genocidio i fatti occorsi poco più di cento anni fa nell’Anatolia orientale, ad opera delle sciabole ottomane.
Il motivo è sostanzialmente uno: la Turchia è un partner essenziale della Nato; non è il caso di scavare una fossa ancor più larga tra noi e loro.
Non a caso nemmeno gli Usa hanno mai compiuto un passo del genere. Non lo ha fatto nemmeno Israele, che per anni ha guardato ad Ankara come partner regionale: per controbilanciare la focosità degli stati arabi.
Cinque dita e un pugno di ferro
Ma non è tutto facile o scontato. Certi “dispiaceri” non sono litanie che si continuano a biascicare – magari ogni volta con un tocco di stanchezza in più – tanto per appagare l’ego di settori sempre meno importanti delle rispettive opinioni pubbliche.
Semmai è il contrario: in Turchia la questione è delicata e scottante come se tutto fosse accaduto ieri, o comunque in tempi recentissimi. Più recenti dei massacri di Vukovar e Srebenica in quella che una volta era la Jugoslavia, e che pure in qualche modo di quel genocidio primigenio sono stati gli ultimi – si spera – discendenti.
Il massacro degli armeni, infatti, è progenitore di una fila di scempi che rappresentano un salto di qualità nell’eterna lotta dell’uomo per ribadire la propria bestialità.
Se la Storia, diceva Hegel, altro non è se non un banco di macellaio, gli armeni furono agnelli sacrificali nella crisi di un impero che lottava per la propria sopravvivenza, a costo anche di recidere una delle cinque dita della mano del Sultano.
Nel 1915, quando iniziò la gran carneficina, il Sultano già contava molto poco. Era di fatto ostaggio di un governo di ufficiali nazionalisti, che gestivano in suo nome le operazioni militari della Prima Guerra Mondiale.
Quanto alle cinque dita della sua mano (turchi, arabi, greci, ebrei e per l’appunto armeni) l’indice ormai puntava verso Londra, grazie al Lawrence d’Arabia; il medio non era considerato affidabile dai tempi dell’indipendenza della Grecia; l’anulare si agitava sentendo arrivare la Dichiarazione Balfour su un focolare domestico in Palestina.
Restava il mignolo, che poi tra tutti era anche il dito in cui il Sultano portava gli anelli più preziosi.
Ricchi erano ricchi, gli armeni: gente di tradizione commerciale ed intellettuale come pochi altri in tutti i domini ottomani.
Avevano, poi, il torto di avere una spiccata coscienza nazionale: l’Armenia era stata per secoli uno stato indipendente e cristiano. Talmente antico, indipendente e cristiano da aver abbracciato ufficialmente la fede in Cristo per farne l’unica accettata già nel 301, ben dieci anni prima dell’editto con cui il Grande Costantino pose fine alle persecuzioni di Roma, per non dire dell’Editto di Teodosio.
Se gli arabi, agli inizi del Novecento, erano un insieme di tribù, gli armeni erano insomma un corpo solo ed un’anima sola. Non antitetica ai turchi, sia chiaro, ma comunque facile bersaglio per una genia di conquistatori che, dopo aver retto per secoli popoli e genti, sentiva la fine prossima del proprio predominio.
Cosa ancor più spaventevole, tutto questo poteva aver luogo per mano dei nemici storici russi. Che sì perdevano dai tedeschi sui campi di Livonia, ma sfondavano lungo il Caucaso e rischiavano di dilagare fino al Bosforo e ai Dardanelli, dove già si erano affacciati gli inglesi in uno sbarco suicida ideato avventatamente da Winston Churchill.
Subito dietro la linea del fronte caucasico risiedevano gli armeni: ricchi, cristiani, ormai non più affidabili. Ma, ancor più di questo, ostacolo all’idea di riunire tutte le tribù turcomanne sotto un’unica guida. Si chiamava panturanesimo.
Quel che restava della mano del Sultano si chiuse allora in un pugno di ferro.
Il sangue delle allodole
Da Costantinopoli partì un telegramma, a firma di Behaeddin Shakir, un ufficiale dell’esercito ora considerato il vero pianificatore dell’eccidio. Il documento, insieme a 24 scatoloni di documenti, è stato ritrovato solo nell’aprile del 2017, dopo essere transitato per Parigi, New York ed il quartiere armeno di Gerusalemme. Era il via libera ai rastrellamenti ed alle deportazioni.
Due parole, queste ultime, che spiegano tutto e dicono ben poco: dietro ci sono centinaia di migliaia di esecuzioni (gli uomini, ed anche i bambini maschi, venivano uccisi immediatamente) di stupri, di donne trascinate a morire nei deserti in vere e proprie marce della morte.
Se i numeri hanno un senso, si sappia che le vittime furono almeno un milione e duecentomila. Chi volesse avere un’idea della orribile concretezza dei fatti veda uno degli ultimi capolavori dei fratelli Taviani, “La masseria delle allodole”, e dica a se stesso se quelle scene non gli ricordano qualcosa che sarebbe successo, tempo trent’anni, anche nel cuore dell’Europa.
Sì, qualcosa di molto simile all’Olocausto, anche se mancano i forni crematori. Il fatto è che la strage degli armeni non fu l’ultima carneficina di un mondo medievale, ma l primo di una lunga catena di genocidi: sempre più sofisticati, sempre meglio organizzati. Sempre più scientifici.
Uno storico tedesco chiamato Ernst Nolte lo colloca addirittura l’inizio di ciò che lui stesso definisce, con terribile ed efficace sintesi, “Il Secolo della Violenza”. Su una cosa è difficile dargli torto, vale a dire sul fatto che il Novecento di stermini pianificati ed eseguiti con precisione scientifica ve ne sono stati tanti. Anzi, quella dello sterminio “scientifico” è proprio una caratteristica del secolo che si è appena concluso, come se l’uomo avesse imparato dalla propria scienza ad essere non più razionale, ma più bestialmente efficace.
Prosegue, la teoria di Nolte, nel dire che il tipico genocidio novecentesco si caratterizza nell’applicazione di un principio di intolleranza precedentemente elaborato a livello teorico e culturale. Nel caso degli armeni si ha la teorizzazione dell’identificazione del “diverso” da eliminare come popolo su criteri di etnia e religione, e nel nome di una soluzione finale che avrebbe fatto trionfare l’ideologia panturanica.
A questi due requisiti Hitler affianca l’idea della razza e l’organizzazione di Himmler, e Stalin quello della classe sociale. In questo modo il primo stermina gli ebrei perché nemici del popolo ariano, Stalin i kulaki (i contadini ricchi delle pianure ucraine) perché alieni alla società socialista senza classi.
Un giorno arriverà in Cambogia Pol Pot, e toccherà agli intellettuali. Anche lui ucciderà un milione di persone.
Nolte, sia detto per inciso, venne accusato di negare l’unicità dell’Olocausto, affiancandogli gli altri genocidi su un livello paritario. I tedeschi chiamano ancora adesso quella controversia “Historikestreit”, lo “scontro tra gli storici”, come se il punto fosse quello di fare una classifica degli orrori.
La verità è che chi uccide un uomo uccide tutto il mondo. Ogni genocidio è un unico. Lo è l’Olocausto. Lo è quello degli armeni. Lo è quello dei kulaki, di cui nessuno si rammenta più. Eppure anche loro ebbero le loro marce votate allo sterminio, ed i loro due milioni di morti.
Forse un giorno saranno ricordati anche loro.