Senza troppa difficoltà Muhammadu Buhari ha conseguito il secondo mandato alla presidenza della Nigeria alla testa dell’All Progressives Congress, confermando il paradosso fra i tratti più decisi della sua biografia. Nel paese con l’elettorato più giovane vince lui a 76 anni, sfidato alle presidenziali da Atiku Abubakar, il miliardario leader dell’opposizione che di anni ne ha 72.
Generale golpista nel 1983, resistendo venti mesi al potere preso ‘manu militari’, Buhari riconquista la leadership del gigante africano soltanto nel 2015, dopo avere democraticamente collezionato due sconfitte alle presidenziali del 2007 e del 2011. E lo fa battendo il presidente uscente Goodluck Jonathan e segnando un risultato senza precedenti: per la prima volta dall’indipendenza nigeriana, una forza di opposizione si afferma nelle urne e non coi carri armati. L’ex golpista ce la fa senza colpo di Stato.
Questa capacità di cavalcare i paradossi è stata, ed è, la vera forza di Buhari, il quale nella settimana intercorsa dal rinvio delle consultazioni a sabato scorso 23 febbraio, invitava l’Esercito a “essere spietato” contro chiunque si opponesse all’andamento democratico delle elezioni. E se oggi Abubakar contesta i risultati elettorali, quando fu lui, Buhari, a strappare la presidenza all’opposizione, il perdente Jonathan gli fece una telefonata di felicitazioni. Cosa che non solo in Nigeria, ma in parecchi Paesi africani accade con estrema rarità.
Il Re del Nord
Se l’abilità di tessere la politica del paradosso sembra la cifra di Buhari, più difficile è la scommessa di amministrare un Paese secondo le promesse. I due maggiori problemi, la corruzione endemica e il terrore seminato da Boko Haram, non sono stati che scalfiti, pure sprecando sforzi e parole per assicurare il massimo impegno. Le violenze di Boko Haram hanno seminato morti e sfollati: sono quarantamila soltanto gli scappati dalla città di Rann in Camerun, cui proprio oggi è stato ingiunto di tornare. Difficile che si accontentino, sia loro sia l’opposizione, delle rassicurazioni espresse oggi da Buhari, mentre ritirava dalla Commissione elettorale indipendente la certificazione della vittoria: “Il nostro governo rimarrà inclusivo e le nostre porte rimarranno aperte”. Difficile smorzare i ricorsi di Abubakar contro la regolarità del voto, inaspriti dalla beffa virale sui social che oggi ha dipinto Buhari – parafrasando ‘Game of Thrones’ – come il “re del Nord”. Perché è nel settentrione della Nigeria che ha imbarcato le maggiori preferenze, mentre Abubakar è andato meglio al sud e all’est.
Sono comunque 15 milioni e 200 mila voti contro 11 milioni e 300 mila, anche se il tasso d’astensione elevatissimo parla da solo circa la sfiducia e le paure del Paese. O più semplicemente circa l’impossibilità di andare al seggio per problemi di cattiva organizzazione o per le violenze che sono costate, nelle ultime battute elettorali, una quarantina di morti.
“Sta facendo del suo meglio”
Ma Buhari, maestro del paradosso, lascia che oggi l’esercito esegua decine di arresti per brogli elettorali nello Stato di Rivers (guarda caso, l’area sudorientale dello sfidante), ma al contempo dichiara al mondo che le elezioni sono state “libere ed eque”. Se qualche broglio alla fine, c’è stato, si punta il dito sul PDP, il People’s Democratic Party di Abubakar.
Buhari intanto si prende per vice presidente Olujonwo Obasanjo, figlio dell’ex capo di Stato nigeriano, uno che fino all’anno scorso gli diceva di tornare a casa. Il mondo si congratula con il presidente confermato ma lo guarda diffidente. La complessa situazione nigeriana, col secondo mandato, sarà meno pesante? Mesi fa con sibillina saggezza Olegusun Obasanjo, il vecchio presidente, di Buhari questo disse: “Sta facendo del suo meglio ma il suo meglio non è abbastanza per la Nigeria”.